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Garlasco, ecco chi è il superteste

di Claudia Osmetti mercoledì 28 maggio 2025

3' di lettura

A viso aperto. Maglietta nera sotto a un maglioncino di lana che sembra sferruzzato a mano, occhi chiari, testa calva. Si chiama Gianni Bruscagin il “supertestimone” del caso Garlasco. Sceglie di uscire dall’anonimato, adesso, e lo fa in un’intervista che va in onda ieri sera nel corso della trasmissione tivù Le Iene, su Italia1. Il servizio è lungo e ripercorre le tappe del delitto di Chiara Poggi e lui, Bruscagin, è sicuro della sua versione (che, peraltro, non è nuova). L’ha già raccontata tempo fa, ha spiegato di essercisi ritrovato nel mezzo per caso (era andato in ospedale a trovare un amico e, proprio in quell’istante, una cugina che era presente stava riferendo quel che poi lui ha riportato all’avvocato della famiglia Poggi, alle forze dell’ordine e al giornalista Alessandro De Giuseppe, nell’ordine), ha ammesso di aver capito subito che «quella era una cosa troppo grande per me».

Nella sua testimonianza ci sono degli elementi di incertezza: non tanto per il contenuto (che è preciso, non foss’altro perché Bruscagin, a un certo punto, tira fuori di tasca tre foglietti scritti a mano, la data con cui iniziano è chiaramente leggibile: 13-8-2007, il giorno del delitto) e nemmeno per la perplessità che qualcuno ha sollevato di recente circa la tempistica delle sue dichiarazioni (come abbiamo già scritto, non è la prima volta che il racconto di questo signore dalla voce pacata e dalla cadenza non troppo pronunciata viene a galla, sia sulla stampa che nell’ambiente degli investigatori), il dubbio principale con cui si deve scontrare è che il suo è un racconto indiretto e che, non bastasse, entrambe le due persone delle quale riporta le parole, sono morte da anni. Il particolare non è secondario, non lo è specialmente se la prospettiva è quella di un procedimento giuridico basato su prove dibattimentali: ma quello è un problema che si porrà (se si porrà) quando sarà il momento. Per ora valgono quei foglietti a quadretti di un mini bloc-notes, riempiti con una penna blu, stampatello maiuscolo, distinti l’uno dall’altro con un numerino cerchiato in alto a destra. Uno, due, tre. «Ho scoperto che in questo giorno alle ore 13 una delle gemelle Cappa si trovava davanti alla casa vecchia (disabitata) credo della nonna...». Il resto lo conosciamo, in breve è la ragione per cui la procura di  Pavia ha fatto dragare, qualche settimana fa, la roggia di Tromello, nella spiegazione più articolata è un giro che comincia con l’inchiesta bis a carico di Andrea Sempio, si allarga a possibili scenari ancora da vagliare a tutto tondo e tira in ballo detti e non detti, voci di paese e piste (all’epoca) scartate.

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«All’ospedale ho ritenuto di scrivere tutto quello che potevo per non dimenticarlo», dice Bruscagin e aggiunge di aver «detto per filo e per segno la verità, per questo non ho paura di niente». Si riferisce, a questo proposito, a una sorta di botta e risposta con l’avvocato della famiglia Poggi, il legale Gian Luigi Tizzoni, che ha sostenuto di «avere un vaghissimo ricordo di quello che successe nel 2007 con lui, ma vengo raggiunto da decine di segnalazioni di gente che si propone. È quello che fece anche lui (ossia con Bruscagin, ndr) all’epoca. Ricordo che non aveva nulla di concreto, gli dissi di andare dai carabinieri». Bruscagin racconta una storia un po’ diversa: dice che è stato Tizzoni a contattarlo (e non viceversa) e che quando è tornato allo studio coi foglietti in mano il difensore gli avrebbe risposto che essendoci «un’indagine in corso non si può accavallare», cioè sostanzialmente che ha scartato la sua ricostruzione.

Bruscagin ha comunque parlato di questa vicenda «con un colonnello dei carabinieri di mia conoscenza, uno di Milano, che mi ha detto di tenere tutto per me perché non era il momento giusto, avrei rischiato di andarci di mezzo io». Il servizio de Le Iene si conclude con alcune dichiarazioni di Alberto Stasi. Di testimoni, su Garlasco, ne spunta anche un altro: e questa volta è il rapporto di un investigatore privato che nove anni fa stava svolgendo delle indagini per conto della difesa proprio di Stasi ad accendere i riflettori su un «evento sconosciuto agli inquirenti». Si tratterebbe di un contadino, un uomo anziano impegnato in un lavoro agricolo nei campi vicino alla villetta a due piani di via Pascoli, che avrebbe «sentito un litigio» o una «conversazione tra la vittima e il suo assassino». Si sarebbe poi recato nel negozio di autoricambi degli Stasi «asserendo di conoscere la verità».

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