La critica al decreto sicurezza voluto dal governo Meloni si basa sull’assunto che esso condurrebbe alla repressione del “dissenso”. Ma davvero siamo in presenza di una svolta autoritaria? E qual è oggi il significato della parola dissenso? Su quest’ultimo punto ci soccorre un testo appena pubblicato Il dissenso, a cura di Lucio Saviani e Carla Stroppa (ed. Moretti & Vitali) nel quale si ricorda che il termine dissidente fu inizialmente utilizzato per indicare chi si opponeva al regime comunista sovietico rischiando di finire in un gulag o in manicomio. Qualcosa di molto diverso dai rischi che corrono coloro che manifestano nelle nazioni occidentali contro i governi legittimamente eletti. Di più: Saviani nell’introduzione sottolinea che «il problema del dissenso nella società contemporanea è che non solo il dissenso è presente ma è troppo presente: una presenza ipertrofica che in qualche modo comporta una implicita negazione della operatività del dissenso. Il problema dunque non consiste nella mancanza di dissenso, ma nel fatto che esista “soltanto” dissenso».
È bene poi sottolineare che il decreto sicurezza va a contrastare forme di protesta che si basano sulla prevaricazione: occupazioni, blocchi stradali, boicottaggio di cantieri, impedimento alla circolazione dei treni. Una prevaricazione che segue la lezione della filosofa Judith Butler sull’alleanza dei corpi che fanno massa contro il sistema capitalista. I corpi non sarebbero altro che i manifestanti che decidono di occupare uno spazio pubblico, il quale tuttavia appartiene anche ad altri (si pensi alle occupazioni di aule universitarie dove deve prendere la parola un personaggio sgradito) e il fatto che ciò avvenga in modo “pacifico” nulla toglie alla prevaricazione implicita nella scelta di occupare. Perché questo rumore di sottofondo si elevi a vero dissenso occorrerebbe un progetto rivoluzionario alternativo al potere che si intende contrastare, mentre qua siamo fermi a una semplice avversione alla “fascista” Meloni per far arrivare a Palazzo Chigi la “compagna” Schlein. Siamo dinanzi insomma a banali baruffe partitiche, qualcosa che potremmo definire esercizio di “indignazione a chiamata” che tra l’altro produce su un numero molto più ampio di cittadini disagi ingiustificati.
Chi è che dissente davvero allora nelle società postmoderne? Facendo riferimento alla teoria di Marcuse della “tolleranza repressiva” – una protesta dialettica è tollerata purché non incrini il conformismo dilagante – il dissidente attuale è colui che riesce a scardinare il meccanismo oppressivo su cui si fonda la classe dominante. In democrazia infatti tutte le idee sono poste, teoricamente, sullo stesso piano ma chi decide quali sono le migliori e quali quelle da scartare? Chi appunto ha il controllo dei mezzi di informazione e comunicazione che formano il sentire collettivo, creando un conformismo che è appunto “tolleranza repressiva” perché al servizio del potere. La sociologa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann a proposito dell’opinione dominante in un dato momento storico parla di “spirale del silenzio”.
L’individuo che non si uniforma a quell’opinione se ne sta zitto per evitare l’isolamento. Chi invece esce allo scoperto e manifesta la sua contrarietà è il non-conforme. E l’uso della parola dissidente a volte può risultare molto più urticante e sgradevole per il potere di un blocco stradale. Purché la parola non si limiti a esprimere i crucci di un singolo ma crei una connessione emotiva con una maggioranza silenziosa che proprio per paura della spirale del silenzio non ha fino a quel momento trovato voce. È in fondo ciò che i tolleranti repressivi chiamano populismo e che invece è anch’esso una forma di dissenso connaturato al dibattito pubblico nelle società democratiche. Altra via d’uscita è l’esercizio del dubbio, l’astrarsi da ogni forma di fondamentalismo e dalla pretesa di essere portatori di “verità”: qualcosa che attiene però più alla filosofia che alla politica.