La scia di sangue non si ferma più. A novembre scorso, il caso Ramy: con il giovane egiziano che, per sfuggire a un posto di blocco, scatena un inseguimento nel cuore di Milano, e finisce per schiantarsi. Pochi giorni fa, la vicenda di Momo, un amico di Ramy: anche qui con un giovane nordafricano finito contro un semaforo: vittima non di un incidente stradale, ma della sua scelta sbagliata di fuggire per il solo fatto di aver visto una pattuglia.
E ieri, tragicamente, si è registrato il più classico “non c’è due senza tre”, ma con una terribile novità, perché stavolta la vittima è totalmente innocente. Ha infatti perso la vita in provincia di Bologna un uomo che viaggiava insieme a sua moglie (quest’ultima è ora in prognosi riservata): la loro auto è stata colpita in pieno dalla macchina di tre sciagurati (il guidatore, a quanto pare, di origine magrebina), fuggiti all’impazzata da un controllo dei carabinieri. Per favore, nessuno parli di “tragica fatalità”, nessuno scomodi eufemismi o attenuazioni consolatorie. Qui siamo davanti a un caso da manuale di omicidio stradale. E – sullo sfondo – nessuno può toglierci dalla testa e dalle orecchie ciò che abbiamo dovuto sentire in tv e leggere sui giornali per sei lunghi mesi, a partire dal caso Ramy. Con i migliori cervelli della sinistra, con i più celebrati (e autocelebrati) commentatori progressisti impegnati – chi più spavaldo, chi più imbarazzato – a giustificare chiunque, al solo apparire di un poliziotto o di un carabiniere, sentisse o senta l’insopprimibile esigenza di fuggire.
Ne abbiamo ascoltate – da allora a oggi – di tutti i colori: chi si arrampicava sugli specchi dei consueti sociologismi («non li abbiamo capiti, non li abbiamo ascoltati, non li abbiamo integrati»); chi colpevolizzava le forze dell’ordine; chi dava lezioni di inseguimento; chi alimentava cortine fumogene per coprire il cuore della questione. Cuore della questione che qui sintetizziamo così: non si scappa dalle forze dell’ordine. E soprattutto: chi fugge all’impazzata mette in pericolo se stesso e gli altri. E allora diciamolo chiaramente. La responsabilità penale è personale: e dunque saranno i tre fuggiaschi di ieri (a partire dal guidatore) a dover rispondere di omicidio. Ma c’è anche una diversa responsabilità, di natura morale e politica, che investe una serie di onorevoli e di commentatori che, dai giorni del caso Ramy, ancora devono fare ammenda. Sarebbe l’ora che riconoscessero come proprio le loro parole di allora, i loro «che male c’è a fuggire», possono aver indotto altri a commettere di nuovo il medesimo tragico errore. Vale per Ramy, vale per Momo, e vale soprattutto per il povero cittadino di ieri, vittima dell’altrui sconsideratezza. Queste morti dovrebbero pesare anche sulla coscienza di chi ha irresponsabilmente parlato a vanvera.