La chiesa è buona. Porge l’altra guancia. Perdona il malvagio. Cerca vie accomodanti. Predica amore dove la vita semina odio e scava pertugi di speranza nella coltre spessa di dolori insanabili. Addirittura, unisce la vittima di femminicidio al suo carnefice e ne celebra le esequie insieme domani alle 15, nella chiesa parrocchiale di Cene, in provincia di Bergamo. Però la realtà è quell’altra cosa là, maledetta e assordante. È quella stanza arredata con cura in via Fanti dove Rubens Bertocchi, custode in Città Alta offuscato dalla gelosia e dall’idea fissa che la moglie Elena potesse amare un altro, ha sparato 6 colpi di pistola contro di lei che stirava la sua dose di panni, mentre ascoltava il chiacchiericcio della tv baciata dal riverbero del sole sui vetri. L’ha colpita guardandola dritto negli occhi perché se ne andasse insieme allo stupore di quella violenza inumana. Quindi ha mandato un ultimo messaggio all’amico caro «se riesco mi ammazzo anch’io» e si è sparato.
Quando il figlio grande si è avvicinato alla casa dei genitori misurando con leggerezza i passi tra la sua palazzina e quella dei nonni, il silenzio aveva già inghiottito tutto e serrato dietro la porta blindata lo strazio di quei due corpi accasciati uno di fianco all’altro in chissà quale idea malata di amore. Il ragazzo l’aveva intuito che qualcosa non andava. Allora ha chiamato i vigili del fuoco ed è cominciato il bailamme. Le forze dell’ordine, le indagini. Il tam tam fuori e in famiglia. I vicini trasfigurati dalla sorpresa ma tutti uguali nel celebrare la parte: «una coppia perbene, non aveva mai dato segnali...». E nel paese pochi commenti di circostanza camminando in fretta e con la testa bassa come si addice alla gente di queste parti che lavora sodo e non vuole ficcare il naso nella vita d’altri.
Restano due figli in questa brutta storia. Il ragazzo di 21 anni, appunto, geometra come Elena, che alle 15 parlava al telefono con mamma e alle 16 la piangeva. E il piccolo di 11, straziato dal vuoto. Era al suo penultimo giorno di scuola e mentre i compagni iniziavano la festa lui doveva iniziare ad associare la parola morte alla faccia “sorridente e solare” della madre e a quella livida del padre, tormentato dalla gelosia. «Un segno di fede e amore celebrare i due funerali insieme» ha detto il parroco di Cene, don Primo. «L’hanno deciso le famiglie». Ma quale amore. Quale fede. Ci scusi la chiesa se osiamo dirlo.
E inerpicarci sul terreno impervio di un delitto straziante. Ma la parola amore associata al più classico dei femminicidi stride e offusca il senso di quanto accaduto. Amore agli occhi di chi. Forse dei figli? Che nulla presagivano di quello tsunami e conducevano le loro vite sicuri di avere la mamma accanto per sempre? O amore agli occhi della società, perché non si ha voglia di attraversare l’abisso ed è meglio concedersi una parola di speranza che una dubitativa? E poi cosa avrebbe detto Elena di questa riappacificazione post mortem. Che era giusto andarsene insieme al suo assassino – tomba accanto a tomba sull’altare pieno di incenso con un pianto corale di sottofondo?
Bisogna attraversarlo il dolore per venirne a capo. Lo si deve a chi è morto e lo si deve ai figli che restano. E quella cerimonia in chiesa, i parenti di lui accomodati sulle panche coi parenti di lei, ci sembra una forzatura. Povera Elena, colpita al petto, alla testa, al collo e a un braccio... Una mamma non lascerebbe mai i suoi figli e sarebbe incazzata nera con l’uomo che la uccide portandoglieli via: questo è il sentimento più diffuso e forse quello più vero. È bene dirselo per non sviare l’attenzione da quello che è accaduto in questo paesello di poche anime, dove il Serio stagnava anticamente e dove la vita non sarà più la stessa.