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Mario Tozzi, l'ultima sparata: "L'impero romano finì per i cambiamenti climatici"

Il geologo sembra suggerire questa teoria in un post nel quale proietta il presente nel passato per lanciare l’ennesimo meteo-allarme rosso
di Marco Patricelli giovedì 12 giugno 2025

3' di lettura

Gli antichi romani odiavano il clima umido delle foreste della Germania, ma non per questo persero a Teutoburgo nel 9 d.C.; a loro non piaceva affatto neppure il meteo della Britannia, ma non per questo costruirono il Vallo di Adriano per starsene al calduccio a sud. Gli antichi romani non ci sono più, però l’impero non è crollato mica per la crisi climatica, come sembrerebbe suggerire invece Mario Tozzi con un post nel quale proietta il presente nel passato per lanciare l’ennesimo meteo-allarme rosso. A parte il fatto che quello che accadde nel V secolo non ha significato l’estinzione della razza umana, come si paventa oggi apocalitticamente, tant’è che Greta Thunberg con la sua presenza può eloquentemente testimoniare la resilienza dei suoi avi scandinavi, e a parte pure che i cambiamenti climatici di allora non erano figli dei motori diesel e del riscaldamento globale, attribuire il crollo di un sistema come l’impero alle bizze meteorologiche è ardito. L’uomo non condizionava le forze della Natura spingendola a ribellarsi.

Ma Tozzi gioca d’ambiguità tra caldo, freddo e antropizzazione, e quindi saltando qualche passaggio logico e storico tra cause ed effetto sugli eventi che a quanto pare ci sono sempre stati senza motori termici, fabbriche inquinanti e sfruttamento intensivo del territorio e delle risorse. Tant’è che oggi è una distesa di ghiaccio su terra ma quando venne scoperta dai vichinghi la Groenlandia era verde tant’è che la chiamarono così, mica Iceland come l’Islanda che almeno tiene fede al suo nome. In ogni caso l’impero romano (d’occidente) è caduto per le invasioni barbariche: una pressione demografica ai confini che si manifestava col furore bellico pur essendo migrazioni di popoli, probabilmente spinte dai cambiamenti climatici, ma anche dallo stile di vita romano che aveva creato città, acquedotti, strade quant’altro chiamiamo civiltà. Modello irresistibile per migrazioni e invasioni.

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Ma oggi, tra Green deal e scorie radioattive di woke, forse è politicamente poco corretto fare analogie. Meglio il neutro catastrofismo climatico. Eppure gli antichi romani cercarono in un primo tempo di contenere e gestire quel fenomeno tutto nuovo ai confini, agendo secondo i loro metodi: permessi di accesso e patti federativi in cambio del presidio del territorio e impegno militare contro quelli che rimanevano dall’altra parte del limes. Con i piccoli numeri la situazione si poteva tenere sotto controllo, con i grandi tutto venne travolto e deciso con la forza delle armi.

Se poi cicloni, bombe d’acqua, tempeste tropicali ante litteram ci aggiunsero qualcosa, è contorno, e soprattutto l’uomo non c’entrava affatto, contrariamente a ciò che Tozzi imputa ai contemporanei. La popolazione era minore di quella odierna, anche se gli allevamenti erano diffusi, gli erbivori (mucche, pecore e cavalli) producevano anidride carbonica allora come oggi, le foreste venivano tagliate per costruire case, forti, navi e palizzate, e pure – orrore! – per riscaldarsi immettendo ossido di carbonio e micropolveri nell’atmosfera.

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Le bighe non avevano filtri antiparticolato e non dovevano essere certificate. Gli antichi romani smaltivano tutto e vivevano senza plastica, ma pure senza antibiotici e quando arrivava qualche epidemia la catastrofe era bell’e confezionata e la si chiamava peste. E figurarsi se pioveva troppo o troppo poco, se faceva troppo caldo o troppo freddo. Meglio decadere. Così i posteri, e Tozzi, sarebbero stati contenti.

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