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Arnaldo Pomodoro con le sue sfere piene di mistero cambiò l'alfabeto dell'arte in piazza

Muore a 99 anni lo scultore che ha rivoluzionato il modo di percepire i monumenti: non più figurativi ma simbolo dell'incomprensione e della sofferenza che mina il mondo moderno, e lo stesso uomo
di Luca Nannipieri martedì 24 giugno 2025

4' di lettura

È morto l’ultimo artista italiano di rilievo internazionale. È augurabile che tutti coloro che vogliono e vorranno parlare della scomparsa di Arnaldo Pomodoro, venuto a mancare due giorni fa nella sua città d’elezione, Milano, dopo esser nato 99 anni fa, nel 1926, in provincia di Rimini, sappiano posizionarlo all’altezza delle sfide che la sua arte ha generato, stabilmente, dalla seconda metà del Novecento ad oggi.

Se le sue sculture sono oggi collocate in alcuni luoghi-simbolo del pianeta, dal piazzale delle Nazioni Unite a New York al Palazzo Unesco a Parigi, dal Parco di Amaliehaven di Copenaghen al Cortile dei Musei Vaticani a Roma, è perché Arnaldo Pomodoro, insieme ad altri artisti, ha incarnato tutte le potenzialità (ma anche tutti i maledetti limiti) di un’arte che, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ha spezzato definitivamente una lunghissima tradizione, che ha retto pressoché incontrastata dai Babilonesi fino al Novecento.

Un breve riepilogo della sua vita ci permetterà di riflettere meglio. Pomodoro inizia, da giovane, con l’oro, l’argento, i preziosi: impratichisce le mani sulle miniature, sugli splendori delle misure minime, come facevano secoli fa, nelle botteghe orafe, Cellini, Brunelleschi, Ghiberti, Donatello. Pomodoro ne studia il colore, la lucentezza, la malleabilità, l’inalterabilità, la conducibilità elettrica, la fusibilità, la duttilità. Inizia con l’oro, ma poi non gli basta e lavora con tutto: il legno, il cemento, l’ottone, il piombo, lo stagno, il rame, lo zinco, il ferro, l’alluminio, e poi, ovviamente il bronzo, e le fibre di vetro. Nel 1956 la prima volta alla Biennale di Venezia, nel 1964 sempre in Biennale gli viene data una sala personale. L’anno dopo, la prima mostra americana. In quello stesso anno, il Moma di New York acquista una sua opera. È l’inizio della consacrazione.

Fino alla Seconda Guerra Mondiale e anche oltre, la scultura italiana era essenzialmente figurazione, cioè rappresentava figure, lineamenti umani, narrazioni che prevedessero profili, corpi, gambe, braccia, occhi, sagome riconoscibili (si pensi ad Arturo Martini, Giacomo Manzù, Marino Marini, Medardo Rosso); dopo gli Anni Cinquanta, invece, le sculture di Alberto Burri, Henri Moore, Pietro Consagra, Alexander Calder, Mauro Staccioli, Arnaldo Pomodoro (e, in misura minore, del fratello Giò) e altri irrompono con la superazione della figura: l’uomo scompare dalle statue messe nelle piazze, nei palazzi, nelle strade. Per secoli, per millenni la scultura figurativa era l’alfabeto pubblico attraverso cui le autorità laiche e religiose e le comunità parlavano (si pensi alle statue degli imperatori, alle divinità greche e romane, alle Crocifissioni, alle Natività, alle Madonne, alle Annunciazioni): le persone riconoscevano nei bassorilievi, nei busti, un alfabeto che sapevano leggere. Dalla seconda metà del Novecento (anche se la crisi era assai più remota), questa unione salta, esplode. Pomodoro incarna perfettamente questa esplosione: seguendo l’insegnamento di Constantin Brancusi, le sue sculture non rappresentano sagome umane distinguibili, ma sfere di bronzo, di metallo, la cui superficie viene trafitta da frecce, feritoie, aculei, orditi geometrici che si rifanno alla geometria euclidea, come la Sfera grande del 1966-67 che troneggia davanti al Ministero degli Affari Esteri a Roma. Le figure geometriche, spezzate da interno ad esterno, si mettono al posto di uomini, donne, madonne, cristi. Anche il Vaticano, la culla per eccellenza della figurazione, accetta che nel Cortile della Pigna, di prospetto alla cupola di San Pietro, si erga un globo in bronzo di quattro metri, dal titolo Sfera con sfera del 1989-1990, che racchiude al suo interno un altro globo più piccolo, interagendo tra di essi attraverso delle spaccature frastagliate.

La cancellazione della figura umana e un alfabeto privo di condivisi segni di lettura sono pienamente accettati dall’Occidente, anzi invogliati. Valgano come testimonianza le parole del cardinale Agostino Casaroli di fronte all’opera di Pomodoro in Vaticano: «Guardando questa realizzazione, mi sono chiesto che cosa possa significare». Non avrebbe detto questo, di fronte ad una Madonna di Michelangelo o ad una statua di Napoleone di Antonio Canova.

Ma davanti a Pomodoro, la sua risposta è: «gli occhi vedono qualcosa di bello, direi seducente; ma qual è il pensiero dell’artista?» E ancora prosegue il porporato: «La cupola di San Pietro è come un messaggio artistico che trascina verso l’alto. Questa sfera dell’artista fa piuttosto riflettere su un tormento interiore dell’universo: anche del piccolo universo dell’uomo».

Tale sbigottito e meravigliato disorientamento di fronte alle opere di Pomodoro, che sono «belle e seducenti, ma senza sapere perché», è ciò che ha portato l’artista a collocare le opere nei luoghi più accreditati del mondo occidentale. Nel 2002 una grande mostra al Palais Royal di Parigi monumentalizza la sua figura nella scena dell’arte mondiale. Nel 2007 nasce la Fondazione Pomodoro che tutela, archivia e valorizza questo tesoro artistico. Ma è un tesoro artistico nel trauma di una grande crisi epocale: un mio piccolissimo episodio personale lo descrive assai bene. Striscia La Notizia, il noto programma satirico di Canale5, mi chiamò e mi disse: «Le piazze, le rotonde e le città sono piene di sculture moderne, la gente non le capisce. Ti va se ascoltiamo il parere dei cittadini e tu, poi, da critico d’arte, le spieghi?». Accettai subito.

Una delle prime sculture misteriose (EnigmArte si chiamava la rubrica, durata tantissime puntate) fu proprio l’opera di Arnaldo Pomodoro, dal titolo Novecento, un grande obelisco a spirale posizionato all’Eur a Roma. La gente che passava davanti, veniva intervistata. «Cosa vuol dire?» chiedeva Striscia. E loro (devo dire quasi tutti quanti): «Boh!», «Forse è un albero di Natale?», «Forse un missile?», «Forse dei guerrieri?», «Forse delle spade e degli scudi?». Spero che la Fondazione Pomodoro e tutti gli esperti tengano presente le risposte della gente.

Perché l’arte, soprattutto quella pubblica, ha sempre fatto i conti con il parere del popolo, istruito o ignorante che fosse. E quando l’opera non viene compresa, studiata e tramandata, il popolo pian piano la tira via. Buon lavoro, dunque, a tutti coloro che, me compreso, amano il gran mistero fecondo di Arnaldo Pomodoro.

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