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Jung, viaggio nella psiche umana inseguendo Dante tra inferno e paradiso

Nel suo saggio, Priverio evidenzia le numerose affinità letterarie e spirituali tra il Sommo poeta e lo Psichiatra
di Pietrangelo Buttafuoco mercoledì 10 settembre 2025

5' di lettura

Il viaggio nella ricerca di sé non è un mettersi la strada tra i piedi ma - oltre la metafora - una discesa agli Inferi o un’ascesa ai Cieli. Come il profeta Muhammad del Buraq, il destriero alato, come dopo fece Dante in punto di poesia, ed è quell’incamminarsi nell’Aldilà degli uomini e delle donne - tutti mortali - domiciliati tra terra e cielo, all’ascolto dei divini.

Il fuoco e la forma nel gran mare dell’Essere. Come l’Isra, dunque, la discesa agli inferi e il “Miraj”, l’ascensione al cielo di Muhammad - così è il viaggio di Dante. Dell’avventura dantesca nel mondo dei morti - ed è questione aperta il rapporto del sommo poeta con fonti spagnole e arabe – si fa letteratura in questo studio di Tommaso Priviero, davvero importante: Fuoco e forma, Jung, Dante e il Libro rosso, edito da Moretti & Vitali (18,00 euro). Carl Gustav Jung legge Dante fin da giovane. Lo rivela il testo in tedesco ricevuto in regalo da una zia che presenta annotazioni e acerbe sottolineature. Continua a leggerlo da studente di medicina a Basilea, mentre partecipa alle sedute spiritiche organizzate da una cugina. Del resto, il grande poeta russo Osip Mandel’stam, perseguitato dallo stalinismo, portava con sé nei suoi frequenti e forzati spostamenti, qualche indumento, un chilo di pane e tutte le opere di Dante.

L’originalità del lavoro di Priviero comincia dall’individuare quanto sia stato importante il contributo della poesia al lavoro dello psicologo. Testimone di questo intenso legame, è appunto il Libro rosso citato nel titolo, opera che ha avuto una lunga gestazione e segnato una cesura tra la precedente e la successiva produzione dello psicologo. Composto da oltre 600 pagine, è suddiviso in Liber primus, «La via di quel che ha da venire», Liber secundus «Le immagini dell’errante» e «Prove». Pubblicato postumo nel 2009, ha modificato l’interpretazione più consolidata e tradizionale, del lavoro di Jung – l’inconscio collettivo, gli archetipi, i tipi psicologici – per introdurre il lettore in una direzione, che si potrebbe definire, con le parole di Marco Garzonio nella premessa, la “Commedia” di Jung, ossia un esperimento «che conduce il lettore nei terreni insoliti di stati di coscienza visionari».

L’autore del saggio, come recitano le note biografiche nel risvolto di copertina, è uno storico della psicologia e psicanalista junghiano e molto altro. Il tema del suo lavoro, è una rilettura della Commedia di Dante attraverso la lente di Carl Gustav Jung, lo psichiatra svizzero che dopo un intenso sodalizio con Freud, se ne distacca per fondare la psicologia analitica.

Introdotto dalla prefazione di Sonu Shamdasani, scrittore inglese, direttore del Centre for the History of Psychological Disciplines dell’University College London e dalla premessa di Marco Garzonio, giornalista, psicologo e saggista, Priviero ci descrive l’interpretazione che Jung fa del visionario testo dantesco, a partire dalla tradizione esoterica cui il poeta fiorentino appartiene, con riferimenti a Blake, al Faust di Goethe e alla Zarathustra di Nietzsche, per approdare al proprio vissuto e alla pratica della sua esperienza professionale.

Jung nel suo testo propone infatti al lettore un viaggio all’interno delle visioni da lui stesso sperimentate e legge anche la Divina Commedia come «risultato di un’esperienza visionaria direttamente vissuta dal poeta», pur se non vi sono informazioni biografiche che vadano in questa direzione. Come tutti gli spiriti originali, Jung offre dunque la “sua” Commedia dantesca, proponendo un ardito paragone del capolavoro dantesco con il suo viaggio interiore, raccontato nel Libro rosso. Dante come modello ispiratore di Jung. Così il viaggio di Dante all’Inferno, diventa un viaggio nell’inconscio di rigenerazione e ritrovamento di sé, che consente la successiva ascesa verso il Purgatorio «a ritornar nel chiaro mondo», per culminare nell’incontro paradisiaco con Beatrice. Così il fuoco nel titolo del libro di Priviero, assume, secondo Jung, connotazioni differenti nelle tre Cantiche: distruttivo nell’Inferno, catartico nel Purgatorio, “rarefazione luminosa” nel Paradiso.

Jung fa menzione di quella che definisce la tecnica dell’immaginazione attiva, capace di produrre contenuti inconsci “che irrompono spontaneamente nella mente cosciente”, mediante una sorta di addestramento di vario genere: il mettersi in ascolto di “parole interiori” o l’attivare la manualità. Una sorta di sogno ad occhi aperti, un lasciare accadere gli eventi che riguardano la psiche, secondo una modalità che Meister Eckhart definiva “azione attraverso la non-azione”. Tante le affinità tra i due testi: l’aiuto di una guida, Virgilio, il dolce padre, per Dante, Filemone per Jung: il vecchio saggio, colui che ama, individuabile già nelle Metamorfosi di Ovidio e nel Faust di Goethe, l’interazione con i morti, che per Jung sono gli inferi precristiani.

La ricerca della salvezza, che per Dante si identifica nella forza dell’amore salvifico di Beatrice, mentre per lo psicologo svizzero, è il risultato di un percorso di rinnovamento personale nel quale l’io razionale, Nietzsche lo definirebbe lo spirito apollineo, si “sottomette” a una forza più grande di lui definita “lo spirito del profondo”, il dionisiaco nicciano, equiparabile alla condizione del folle o del visionario.

Jung accomuna Dante, Cristo e Nietzsche nella metafora del viaggio, che per i tre avviene nel mezzo del cammin di loro vita: Dante inizia a scrivere il testo a 35 anni, Cristo muore nel suo trentaquattresimo. Nietzsche annuncia, qualche anno più tardi, il passaggio dall’uomo all’oltre-uomo. Anche l’interpretazione che Jung fornisce di quel che accade a Gesù dopo la sua crocifissione offre una prospettiva inedita: «Cristo, dopo la sua morte, dovette discendere all’Inferno, perché altrimenti gli sarebbe stato impossibile l’ascensione al cielo».

Di nuovo, la necessità di entrare in contatto con la “selva oscura”, la parte più nascosta e misteriosa dell’Io. Stessa concezione di Eckhart secondo cui l’inferno non è più luogo di punizione eterna, ma una condizione di paura e sofferenza, che bisogna lasciar accadere, per affrontare un processo graduale di rigenerazione. Quel carcere dell’anima che, in taluni destinati alla gioia di restituzione alla vita, è galera del corpo: paura, privazione di libertà e attesa. C’è molto altro nel testo di Priviero. Riferisce della grande curiosità di Jung per Lucifero, di cui nel Libro rosso ci sono più di duecento riferimenti. Anche in questo caso, lo psicologo svizzero ne offre un’interpretazione “scandalosa”. Lo definisce una presenza imbarazzante per l’ordinamento cristiano, perciò «si sminuisce la sua importanza deprezzandolo o prescindendo dalla sua esistenza». 

Mentre per Jung rappresenta una figura che contiene al suo interno, distruzione e creazione, forza caotica e insieme creativa. Allo stesso modo per il Dio Abraxas, citato dallo psicologo, divinità di origine gnostico-mitraica, che viene definito unione di luce e ombra, come un albero che si innalza verso il cielo sempre più che le sue radici si inoltrano nel buio della terra. Sempre per tornare all’idea che il viaggio di Dante possa avere l’obiettivo di «una riconciliazione di forze opposte che si potrebbe definire una psico-cosmologia degli opposti», che per Dante può avvenire, come scrive nel primo canto del Paradiso, e come conclude Priviero, con «lo scioglimento dell’individualità nelle acque luminose del gran mare dell’essere».

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