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Lirica, la grande noia dell'Opera italiana: così si condanna da sola

I teatri sono diventati musei sonori: si spolverano sempre gli stessi “quadri”. Ora serve riscoprire titoli dimenticati e liberarsi dal monopolio delle agenzie
di Enrico Stinchelli venerdì 10 ottobre 2025

3' di lettura

Sempre più frequenti - e sempre più amare - le proteste del pubblico dell’Opera. C’è chi parla di «stanchezza», chi di «disaffezione», ma la verità è sotto gli occhi di tutti: i teatri italiani vivono una stagione di pigrizia programmatoria senza precedenti. Cartelloni che si ripetono identici, titoli sempre uguali, cast fotocopia, produzioni riscaldate.

È un fenomeno che non riguarda un solo teatro, ma quasi tutto il panorama nazionale, dalle Fondazioni liriche ai teatri di tradizione. Una volta, fino agli anni Cinquanta e Sessanta, i palinsesti offrivano varietà, curiosità, rischio: oggi la parola d’ordine è «prudenza». Ma questa prudenza, figlia della paura di sbagliare, ha prodotto un effetto devastante: la noia- che nei teatri è peggio del vuoto.

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UN PATRIMONIO DIMENTICATO
Come si sa, il repertorio operistico italiano è sterminato: decine di migliaia di titoli composti tra il solo Settecento e l’Ottocento, da centinaia di autori, molti dei quali giacciono dimenticati negli archivi. Nei cartelloni della golden age - dagli anni ’50 ai primi ’70 del Novecento - si trovavano venti, anche venticinque opere all’anno, spesso con riscoperte e titoli di frontiera.

Oggi invece si gira intorno ai soliti cinque: Traviata, Tosca, Aida, Carmen, Rigoletto. Le eccezioni- Rossini Opera Festival, Donizetti Opera di Bergamo, Martina Franca- confermano la regola: lì la rarità è obbligatoria, altrove è un rischio che non si vuole correre. Il risultato è una stagione che suona sempre uguale, rassicurante, prevedibile. E l’arte, quando diventa prevedibile, muore.

Il pubblico si annoia, ma non per colpa sua. C’è chi accusa il pubblico di ignoranza. È un errore. Il pubblico non ha colpe: è stato educato alla ripetizione, è assuefatto all’ovvio. E se per trent’anni gli si propone sempre La traviata, imparerà che “l’Opera” è quella e nient’altro. Le direzioni artistiche, nel tentativo di garantire l’incasso, scelgono titoli “sicuri”. Ma la sicurezza è l’anticamera della mediocrità: un teatro che non rischia è un teatro già spento.

Il pubblico invece risponde dove c’è curiosità, dove si percepisce un progetto, una visione. E questo vale anche nei teatri di provincia: basterebbe rispetto e qualità, non solo routine. Un’altra causa, meno confessata ma determinante, è il monopolio delle agenzie liriche che contano - sempre le stesse - e che si accaparrano i cantanti migliori. Oggi il mercato internazionale, e quello italiano in particolare, è dominato da due sigle: Ariosi Management e In Art. Sono loro, in gran parte, a dettare legge sui cast, sui nomi, sulle carriere. I direttori artistici, spesso privi di tempo o di coraggio, si affidano a questi roster come a un supermercato del canto, per dormire sonni tranquilli.

Il risultato? Gli stessi cantanti ovunque, voci intercambiabili, talenti emergenti lasciati fuori perché non “appartenenti” alla scuderia giusta. Così si perpetua un sistema chiuso, autoreferenziale, che ostacola il ricambio e penalizza l’eccellenza vera. C’è poi la questione economica. Il Fondo Unico per lo Spettacolo - cioè denaro pubblico - sostiene le Fondazioni liriche. Eppure, paradossalmente, invece di stimolare la ricerca artistica, il FUS sembra premiare la gestione conservativa. Chi rischia meno, perde meno. Chi non sperimenta, non sbaglia. Ma un teatro che vive di sovvenzioni dovrebbe essere proprio quello più libero di osare, non il più pavido. Invece gli uffici marketing restano immobili, incapaci di attrarre nuovi sponsor, e il cerchio si chiude: meno sponsor, meno rischi, meno idee.

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PRUDENZA O VILTÀ
Si parla tanto di “innovazione”, ma dietro le quinte regna la paura. Paura di scontentare, paura di fallire, paura di perdere il posto. Meglio ripetere l’ennesima Traviata che rischiare un Oberto o una Luisa Miller. Meglio l’ennesima Tosca che Il Guarany di Gomes o Louise di Charpentier. Eppure il pubblico italiano, quando sente la novità autentica, la riconosce.

Non è vero che la gente non ama il rischio: non ama la sciatteria. Ciò che manca è la visione, non il desiderio. Non è solo una crisi di repertorio, ma una crisi di coraggio. Il teatro d’Opera italiano si è trasformato in un museo sonoro, dove si spolverano sempre gli stessi quadri. Eppure l’arte vive solo se si muove, se sorprende, se sfida. La cultura non può essere una replica infinita di sé stessa. Riscoprire i titoli dimenticati, liberarsi dal monopolio delle agenzie, riattivare il dialogo con il pubblico: questa è l’unica vera riforma possibile. Finché continueremo a suonare sempre la stessa musica, non sarà solo l’Opera a essere morta. Saremo anche noi.

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