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Il Ponte sullo Stretto divide l'Italia? In Cina ne fanno uno quattro volte più lungo

Andrà a finire che in un futuro prossimo venturo sbarcheranno all’improvviso i cinesi e con una legione di operai-formiche collegheranno Calabria e Sicilia
di Marco Patricelli venerdì 7 novembre 2025

3' di lettura

Andrà a finire che in un futuro prossimo venturo sbarcheranno all’improvviso i cinesi e con una legione di operai-formiche collegheranno Calabria e Sicilia con un ponte avveniristico progettato da un ingegnere con gli occhi a mandorla laureato in Italia. E a Pechino sorrideranno, con compostezza orientale, per le sorti del Belpaese, delle sue lungaggini burocratiche, delle interferenze tra poteri e dell’ostruzionismo politico. Eredi degli antichi romani che i ponti li costruivano in un amen per farli durare nei secoli dei secoli, gli italiani che hanno realizzato opere di ingegneria ovunque sorge e tramonta il sole e anche nell’umbratile foresta amazzonica, si sono persi in un bicchiere d’acqua salata e in un mare di carte bollate.

La Cina invece, che ha umiliato gli altezzosi europei schiantandone l’industria dell’auto, ha appena inaugurato il primo ponte sospeso strallato a doppio livello sul fiume Yang-Tze, già attraversato da altri dieci, tanto per non negarsi nulla nell’agevolare i trasporti e la viabilità, quindi i commerci e tutta l’economia che ruota attorno agli spostamenti. Se il Ponte sullo Stretto è talmente stretto che non riesce neppure a passarci per 3,6 chilometri, quello cinese è lungo quasi il quadruplo. Troppo facile, si dirà, la Cina non ha mica la Corte dei Conti. Vero, ma non ha neppure la sinistra all’opposizione, perché lì la sinistra è al potere e l’opposizione non l’ammette proprio per principio. Quindi non ci sono le Elly Schlein, i Giuseppe Conte, i Nicola Fratoianni e neppure gli Angeli Bonelli a urlare e strepitare contro il ministro dei Trasporti Matteo Salvini che il Ponte sullo Stretto lo sognava da quando da ragazzino masticava la “gomma del ponte” e cercava un pacchetto con la Sicilia sullo sfondo invece di Brooklyn. La pronuncia della magistratura contabile ha fatto stappare a sinistra le bottiglie di spumante equo e solidale per un brindisi di gioia, ideologica e autolesionista. Perché da quel poker rosso è impossibile persino attendersi ciò che diceva, ravvedendosi, Gene Wilder nel film Frankenstein Junior: «It could work!». In italiano lo tradussero con l’ormai celeberrimo «Si-può-fare!» ed è quello che è stato detto e scritto, ma in ideogrammi cinesi, con l’undicesimo ponte sullo Yang-Tze.

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Pure quello che collega il continente alla Sicilia si può fare e si sarebbe già dovuto fare, al netto delle facili ironie e delle ingenerose gufate di partito preso. Il progetto è una sfida da vincere per la civiltà ingegneristica, per il progresso e per quel made in Italy che non è uno slogan ma la risultante di una storia di successi. E infatti, per quanto possa sembrare incredibile, del Ponte sullo Stretto a campata unica che non c’è ancora, nel mondo ne esistono già sei copie: cinque realizzate e una in fase di realizzazione, ancora una volta in Cina, battezzato New Xihoumen Bridge. Rispetto al nostrano rabbioso ostracismo partitico le mitologiche Scilla e Cariddi erano due tenere creaturine, mica i mostri che predavano i marinai che osavano solcare quelle acque, con cui persino un mostro d’intelligenza e di furbizia come Ulisse dovette scendere a patti. Lo raccontò Omero che era cieco ma guardava assai lontano, mentre oggi godono dello stop coloro che non vedono oltre un palmo del loro naso. I cinesi, nel frattempo, ringraziano e salutano con la manina dal ponte a campata Huajiang Grand Canyon, realizzato in appena tre anni, che svetta tra le nuvole a quota 625 metri. Aveva proprio ragione il dottor Frankenstin,senza la “e”: «Si-può-fare». Anche in Italia.

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