In tutte le case il Bambinello arriverà al centro del presepe allo scoccare della mezzanotte del 24 dicembre, ma intanto nei giorni che portano a Natale i tre bambini anglo-australiani della casa nel bosco di Palmoli sono tenuti ancora lontani dagli affetti familiari e domestici. Non ci vuole un atto di “bontà” per restituirli alla famiglia, ma solo un pizzico di buon senso, senza scomodare i codici e il gesto nobile di clemenza sovrana calata dall’alto. Non occorrono torroni e panettoni per addolcire il “pasticciaccio brutto” in terra d’Abruzzo: basta una firma che consenta a mamma Catherine e papà Nathan di festeggiare davanti al caminetto la festa più importante dell’anno che esalta il senso della famiglia e della condivisione delle emozioni.
Ma in un Paese dove ci si mobilita anche per il nulla, si scende in piazza per il niente e si manifesta per lo zero, sembra davvero troppo ipocrita schermarsi dietro allo scudo della Legge per consentire quello che nessuno accetterebbe se rivolto a sé stesso. Non è certamente casuale che alle battute conclusive della Festa di Atreju sia la premier Giorgia Meloni, sia il ministro Matteo Salvini, abbiano dedicato una riflessione che è anche un appello neanche troppo velato per risolvere la scabrosa vicenda dei tre bambini.
«Si tolgono figli a chi vive nel bosco, ma si resta in silenzio davanti alle baraccopoli nei campi rom», ha sottolineato il presidente del Consiglio, mettendo a nudo aspetti etici con riflessi giuridici e di applicazione del diritto: «Lo Stato che si vuole sostituire alle mamme e ai papà ha dimenticato i suoi limiti, come lo ha superato chi non si è fatto remore a difendere la decisione di mettere in comunità dei bambini che vivono con i propri genitori nella natura e poi però rimane in silenzio davanti alla vergogna di bambini che vivono nelle baraccopoli nei campi rom, che vengono mandati a fare accattonaggio o a rubare. Sono banali principi di buon senso».
Sulla stessa frequenza Salvini, che parlando dei genitori come di «persone perbene», ha espresso il desiderio che i bambini «possano tornare a casa per Natale. Mi vergogno per quegli assistenti sociali, mi piacerebbe che avessero la stessa solerzia per liberare i bambini che vivono nello schifo dei campi rom». La casa della coppia anglo-australiana per il momento non è più nel bosco ma rispecchia l’idea di un modello alternativo a quello di massa, con qualche servizio e comodità in più. Ma lo sradicamento operato per rispettare i canoni sociali maggioritari resta, e ha un disvalore aggiunto proprio in questi giorni. Sono gli affetti a essere speciali, non gli effetti di luci, lustrini e altre frenesie della vita moderna accantonate da papà Nathan e mamma Catherine, che non si riparavano in una mangiatoia e per scaldarsi non utilizzavano né il bue né l’asinello che comunque avevano libero di pascolare.
E certamente non hanno in casa le statuine made in China e neppure l’albero di plastica, considerato pure che il bosco fornisce ogni tipo di albero vivo e la luce della luna tra i monti d’Abruzzo spesso è più suggestiva delle luminarie a intermittenza. Terra di misteri e di magie, di lupi e di streghe (che nella tradizione locale erano belle e affascinanti perché solo così potevano ammaliare), di zampognari e novene natalizie, l'Abruzzo purtroppo non ha avuto nessun Perrault a raccontarli. Non ci si aspetta un miracolo di Natale, perché il miracolo è un’altra cosa, ma solo una favola bella a lieto fine di una famiglia riunita attorno al focolare della loro casa. La casa-famiglia, anche se unisce i due concetti, non è né l’una né l’altra cosa, e non ci vuole né un assistente sociale con la sua laurea né un giudice con gli articoli di legge per comprenderlo.