Gelatina da cava e polvere pirica: questi i materiali dell'ordigno esploso il 16 ottobre all'esterno dell'abitazione del giornalista Sigfrido Ranucci. È quanto emerge dall'analisi effettuata dagli investigatori nell'ambito dell'indagine della Procura di Roma sui resti della bomba piazzata in un vaso esterno alla villetta nella zona di Campo Ascolano a Pomezia, centro alle porte della Capitale. Si tratterebbe di un ordigno di circa un chilogrammo che sarebbe stato azionato da una miccia che era sull'estremità.
Nel procedimento, all'attenzione dei pm della Dda che hanno delegato le indagini ai carabinieri, si procede per danneggiamento e violazione della legge sulle armi aggravate dal metodo mafioso. Al momento gli inquirenti non escludono la pista che porta a gruppi della criminalità organizzata. Ad aiutare gli investigatori a risalire agli autori dell'esplosione potrebbero essere proprio i risultati sulla composizione della bomba. Ordigni come quelli del caso Ranucci, infatti, sarebbero riconducibili, sempre in base a quanto trapela da ambienti investigativi, ai clan della malavita e, più in particolare, alle organizzazioni criminali mafiose di origine rom.
Al vaglio anche le videocamere di sorveglianza della zona limitrofa, e non, alla casa di Ranucci. Non è escluso nemmeno che il conduttore di Report possa essere presto risentito. Nel corso del primo interrogatorio, avvenuto poche ore dopo l’attentato, il giornalista aveva parlato ai pm della Dda capitolina Carlo Villani e al procuratore capo Francesco Lo Voi di "quattro o cinque tracce riconducibili a un unico ambito". Tra queste anche quelle della criminalità locale, dalle famiglie di Ostia fino alla malavita albanese.