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Jago, natura morta con armi: all'Ambrosiana l’invettiva silente di una civiltà implosa

Jago: “Io non ho inventato niente. Ho solo composto. I veri creatori sono i criminali di guerra”
di Nicoletta Orlandi Posti giovedì 8 maggio 2025

3' di lettura

C’è un istante, impercettibile e definitivo, in cui la bellezza smette di essere promessa e diventa rovina. Un punto cieco, fragile, in cui la forma resiste ma il senso si è già dissolto: è lì che Jago incontra Caravaggio. All’Ambrosiana di Milano sono esposte due ceste: sulla parete di fondo c’è la Canestra di frutta, dipinta da Michelangelo Merisi tra il 1597 e il 1600, emblema di un realismo che non consola ma avverte, simbolo dell’Ambrosiana. Dall’altro, il candido e gelido canestro marmoreo di Jago pieno di armi, mitragliatrici, pistole. Non c’è più dolcezza da offrire nella sua Natura Morta.

Jago, al secolo Jacopo Cardillo, non si sottrae al peso del confronto. Lo affronta con il rigore di chi sa che l’arte non è mai un luogo neutro. Dopo Michelangelo, evocato con una Pietà maschile e un David femminile, lo scultore dialoga ora con il pittore della luce. Ma se nel Merisi il frutto è ancora capace di invocare la vita – pur nell’attimo che precede il disfacimento – la sua Natura morta è un requiem senza requiem: un canestro di morte, silenziosa, funzionale, quotidiana.  Il gesto è netto, il messaggio spietato. “Una natura morta è una natura morta”, ha detto Jago. Non è arte: solo oggetti – pistole, proiettili, fucili – disposti con la cura di una composizione antica, scolpiti in marmo come reliquie di una civiltà che ha smarrito ogni tensione al sacro. Dove Caravaggio lasciava una traccia di luce, Jago mostra l’ottusità opaca dell’insensatezza. Dove l’uno ci dava la possibilità del dubbio, l’altro ci nega persino la consolazione. Eppure, è proprio nel gelo di questa materia eterna che la mostra trova il suo punto più alto. Perché l’assenza di narrazione – rivendicata dallo scultore come atto di disgusto verso un’epoca che tutto comunica e nulla dice – diventa una denuncia radicale. “Io non ho inventato niente”, afferma. “Ho solo composto. I veri creatori sono i criminali di guerra”, puntualizza come fece Picasso davanti al suo Guerniga. Le armi non sono simboli. Sono oggetti reali. L’arte, in questo caso, è solo disposizione. Ma anche questo gesto, apparentemente minimale, produce uno choc.

La Canestra caravaggesca, ospitata dal 1607 nella collezione Borromeo, era già in sé un’eresia iconografica. Un modo nuovo, dopo Trento, per dire la fragilità dell’umano attraverso ciò che non parlava di fede ma di tempo. Il frutto come misura della caducità, la luce come ultimo baluardo del divino. Un teatro vuoto, spoglio, in cui ogni elemento rimanda alla vita e alla sua sparizione. Jago riprende quel linguaggio per rovesciarlo. Non ci sono più le foglie rugiadose pronte ad appassire, ma la precisione chirurgica di strumenti nati per annientare. Il cesto non contiene più dolcezza, né memoria. È un'accozzaglia, dice lui stesso, “è l'immagine dell'inutilità della creatività umana messa a disposizione dell'insensatezza di scopi che vanno in direzione opposte alla vita, è un'accozzaglia - spiega l'artista - che testimonia lo spreco, l'incapacità di mettere al primo posto la comunicazione, l'amore, l'essere importanti gli uni per gli altri, tutto ciò che la storia avrebbe dovuto insegnarci”. E se l’opera del Caravaggio si può ancora assaporare, “nella mia – prosegue Jago – dove sta l’arte?” Il confronto è crudo. Senza estetismi. Eppure carico di tensione etica, quasi liturgica. Perché davanti a queste due nature morte, il visitatore è chiamato a scegliere cosa voglia ancora vedere. Se l’eco lontana di una speranza che resiste, o l’invettiva silente di una civiltà implosa.

“Non credo ci sia arte nella mia Natura morta”, insiste Jago. Ma forse c’è un altro tipo di bellezza, più scomoda: quella che non consola, non salva, ma obbliga a guardare. E a scegliere da che parte stare. Il dialogo tra la Natura morta di Jago e quella di Caravaggio si potrà ammirare alla Ambrosiana di Milano fino al 4 novembre. Assolutamente da vedere.

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