Miracolo Milano. Non a Milano, come recitava un grande film di Vittorio De Sica, ma proprio Milano, miracolo in grado di unire bellezza ed efficienza, arte e produttività, ricchezza e accoglienza, antico e moderno, gusto della vita e passione per il lavoro. A raccontare il capoluogo lombardo con occhio appassionato ci pensa il volume ideato e curato da Renato Farina con prefazione di Vittorio Feltri, foto di Anna Crespi, interviste di Andrea Radic (Mondadori Electa, pag.224, euro 24) attraverso un vasto percorso fotografico, dialoghi con i protagonisti della metropoli, aneddoti e testi che testimoniano una storia alternativa degli ultimi decenni della città e descrivono una rinascita dovuta anche alle scelte di una classe politica che, tra gli anni Novanta del secolo scorso e gli anni Duemila, ha ridato spazio alle energie e alla creatività del multiforme popolo milanese.
La bellezza capace di unire modernità e tradizione, la vitalità e lo stile di vita di Milano hanno sempre esercitato grande fascino. E il libro, che verrà presentato martedì 27, documenta lo stupore suscitato in grandi artisti e scrittori con non poche perle. La più luminosa è, forse, una poesia di Herman Melville (che riportiamo qui a lato) pubblicata dalla rivista dell’Università del Nebraska nel 1891, ma inedita in Italia, nella quale l’autore di Moby Dick esprime tutta la sua meraviglia al cospetto del Duomo, «la bianca cattedrale» con «le sue tribù di pinnacoli», l’esercito «di statue di santi su santi» che indicano il cielo eppure restano così legati alla terra della «grassa antica pianura lombarda». Per Melville il Duomo è un paradiso: «Meraviglioso. Mi dà più soddisfazione di San Pietro. Un’ammirevole grandiosità. Potrei benissimo rimanere ospite del cielo in cima al Duomo di Milano».
In esso, coglie l’essenza stessa della vita sotto la Madonnina: «Milano e i milanesi trasformano le idee in fatti, guglie, gruppi di angeli, torrette dalla tessitura di ragno». Prima di lui, a rimanere stregato dai milanesi prima che dalla città stessa, era stato il filosofo francese Michel de Montaigne che, arrivato a Milano nel 1581, scriveva: «Viaggiare significa strofinare il proprio cervello contro quello degli altri!». «Milano è la città più popolosa d’Italia, ricca, piena d'ogni sorta di artigiani e mercanzia, somiglia a Parigi». Charles de Montesquieu (1689-1755), invece rimase estasiato dai salotti, dalle donne che li frequentano, dalla bellezza e dalla cultura che li animano. Il filosofo e politico francese scopre poi la Biblioteca Ambrosiana («è pubblica, e vi forniscono carta, inchiostro e penne. Ed è tenuta benissimo») e «la chiesa delle Grazie. Nel refettorio, il famoso quadro di Leonardo da Vinci, che è una cena, ... uno di più bei dipinti del mondo... Si vede la vita, il movimento lo stupore... tutte le passioni».
Ma la bellezza a Milano è parte stessa della vita, anche nelle sue sofferenze. E così Montesquieu rimane incantato dall’Ospedale Maggiore, la Ca’ Granda, capolavoro del Filarete, che oggi ospita l’Università Statale: «Un edificio bellissimo. Tutto fa capo al grande cortile, dove si ha cura dei malati e si accolgono i bambini abbandonati. Ce ne sono stati nell’ultimo anno 360... Chi ha reso incinta una ragazza la conduce di nascosto all’Ospedale e lì la fa partorire, in segreto». Nessun moralismo, solo vita e carità. Tra gli intellettuali che più hanno amato Milano c’è sicuramente Stendhal, al punto che sulla propria tomba a Montmartre volle farsi denominare “milanese”. Egli arrivò a Milano nel giugno del 1800, al seguito di Napoleone, rimase colpito dalle case, dai giardini interni. «Milano è la città d’Europa con le strade più comode e i cortili più belli all’interno delle case», scrisse. «Presso questo popolo nato per il bello, ... ci si occupa un mese di seguito del grado di bellezza della facciata di una casa nuova». Stendhal descrive la vita di società milanese, ma anche lui si ferma di fronte alla Cattedrale: «Sono andato a vedere il Duomo. Qui ho trovato un silenzio assoluto. Quelle piramidi di marmo bianco, così gotiche e slanciate che si elevano nell’aria e si stagliano sul blu cupo di un cielo meridionale ornato di stelle scintillanti, formano uno spettacolo unico al mondo».
Il Duomo. Non solo la sua maestosità, ma il legame intrinseco con lo spirito della città, per cui sembra trasportare ogni poverocristo tra le sue guglie verso il cielo, affascina i visitatori. È questa l’immagine che si fissa nell’ultimo sguardo di Charles Dickens mentre lascia Milano a fine novembre 1844: «Alle cinque del mattino, Milano rimase ben presto dietro a noi, e, prima che la statua dorata, posta in cima alla guglia del Duomo si perdesse nell’azzurro del cielo, le Alpi, presentando una meravigliosa confusione di creste e di picchi maestosi, di nubi e di neve, troneggiavano sul nostro cammin». Per Mark Twain, il Duomo, invece è il faro che guida il cammino nel mare della pianura: «Al crepuscolo, siamo giunti nei pressi di Milano e abbiamo intravisto la città e le vette azzurre alle sue spalle. Morivamo dalla voglia di vedere la rinomata cattedrale! Alla fine, una giungla di aggraziate guglie, luccicanti nella luce ambrata del sole, si è lentamente elevata sui tetti bassi delle case allo stesso modo in cui talvolta ci capita di osservare, sull'orizzonte lontano, una massa dorata e torreggiante di nubi sollevarsi sulla distesa di onde, nel mare: la cattedrale!».
L’ultima sorpresa di Miracolo Milano la offre Ernest Hemingway, convalescente dopo essere stato ferito sul Piave nel luglio 1918: «C’erano le rotaie del tram e più in là la cattedrale, ci parve enorme e la pietra era bagnata. Attraversammo l’estremità della piazza e ci voltammo a guardare la cattedrale. Era bella nella nebbia», scrive in Addio alle Armi, raccontando lo sguardo così caro e familiare ai milanesi di ogni epoca.