Finirà ancora a tarallucci e vino: una nuova sede, un passaggino istituzionale per tenere calmi gli animi, un nuovo nome con cui edulcorare la pillola, magari una serie di lavori di ristrutturazione a carico della collettività. Ma alla fine il centro sociale Leoncavallo di Milano, sgomberato giovedì dalle forze dell’ordine dopo 133 visite a vuoto dell’ufficiale giudiziario e 50 annidi occupazione abusiva tollerata e coccolata dai sindaci di sinistra, tornerà più vivo che mai e più che mai motivato a fare sentire il suo grido di battaglia in difesa del «diritto all’arte sovversiva contro l’espropriazione dei patrimoni pubblici autogestiti»... almeno, l’intenzione è questa.
Commercialisti vicini al centro sociale sono infatti al lavoro per trovare la quadra. E la strada sarebbe già stata individuata, come anticipato dal Giorno e confermato dagli avvocati. Sul tavolo c’è l’ipotesi di trasferire il centro sociale in via San Dionigi 117/A, stradone trafficatissimo a sud del Corvetto e a due passi dalle anime pie dell’abbazia di Chiaravalle.
Qui giace un vecchio stabile comunale dove finora ha dimorato una colonia di gatti amorevoli. Ci sfrecciano le auto di passaggio e qualche runner ardito che per salvare la pelle ogni tanto invade la ciclabile accanto. Sulla cancellata - per dirvi lo spirito che aleggia in zona all’idea di dividere il quartiere con seratine alternative, festa del raccolto e musica a palla a tutte le ore - campeggia la scritta “No Leoncavallo”. Il punto però è un altro, anzi due. Il primo riguarda i costi: 3 milioni di ristrutturazione, compresi gli allacci e la bonifica dall’amianto (chi li paga?).
E poi la modalità della concessione. Giovedì il Comune pubblicherà un bando della durata di 90 giorni per assegnare gli spazi. E ovviamente sarà aperto a tutte le realtà sociali del panorama milanese, Leoncavallo compreso. C’è però un problema da risolvere. A nome di chi presentare la manifestazione di interesse? Le inchieste sull’urbanistica incombono. E un solo passo falso comporterebbe, non solo il rischio di essere esclusi dal bando, ma anche una rivolta di massa del centrodestra (e forse dei milanesi) con tanto di esposto ed eventuale denuncia alla Corte dei Conti per danno erariale. Ebbene, le mamme antifasciste che gestiscono il centro sociale- e già a marzo 2025 avevano presentato una manifestazione di interesse preliminare per la concessione dell’immobile di via San Dionigi- non la riproporranno adesso per pendenze aperte con il Comune sulla Tari (tassa sui rifiuti che evidentemente Palazzo Marino ha continuato ad esigere nonostante l’occupazione abusiva) e con il ministero dell’Interno a causa dei famosi tre milioni di euro che la Corte d’appello ha imposto al governo di pagare per risarcire i Cabassi (proprietari dello stabile) e che il Ministero a sua volta ha richiesto a Marina Boer, presidente delle mamme antifasciste.
Dunque tocca avere un asso nella manica. E i commercialisti l’avrebbero già trovato, si tratta solo di limare i dettagli. Sarà la fondazione Leoncavallo, costituita nel 2004, a partecipare al bando. Semplice. Lapalissiano. Ma questa fondazione dove si trova e cosa fa? Al momento pochi sembrano saperne qualcosa e nessuno si spinge oltre qualche vago ricordo. Nel 2004 era sindaco Albertini e aveva affidato la patata bollente alle solide mani del fido assessore Sergio Scalpelli.
Quest’ultimo godeva dell’appoggio di molti, anche nel centrodestra, convinti che si dovesse arrivare alla pacificazione delle anime della città e quindi anche a una legalizzazione dello storico centro. Il gruppo di lavoro che si costituì per l’occasione aveva in mente un’operazione in due fasi: la prima, un accordo con il centro sociale e la proprietà dell’immobile per regolarizzare gli aspetti giuridico-formali e stabilire le attività che si svolgevano in via Watteau. La seconda, «dare vita a una fondazione pubblico privato». Ma chi fu spettatore della trattativa assicura che «non si chiuse nemmeno la prima fase». Di fatto però di fondazione si torna a parlare in modo esplicito quello stesso anno (2004) in alcuni articoli di giornale che riferiscono di un progetto presentato a Palazzo Marino dal consigliere comunale di Rifondazione comunista, Daniele Farina, insieme a Sandro Antoniazzi (portavoce del centrosinistra, scomparso da poco) e Rosario Pantaleo (Margherita). Era la vigilia dell’udienza alla Corte d’Appello per la sentenza definitiva sulla permanenza del Leoncavallo nella sede occupata. E, secondo i resoconti dell’epoca, il piano prevedeva la creazione di una Fondazione costituita da esponenti della società e della cultura milanese, e sostenuta dal Leoncavallo con lo scopo di promuovere le attività di assistenza sociale e culturali che si svolgevano in via Watteau. La fondazione avrebbe intrattenuto rapporti con Comune, Prefettura e le altre istituzioni.
C’era anche il nome: “La città che vogliamo-onlus”. Tra i componenti figuravano le mamme antifasciste del Leoncavallo, Antonio Panzeri, ex segretario della Camera del Lavoro, il docente universitario Giorgio Fiorentini e la capogruppo dei Verdi a Palazzo Marino Milly Moratti. Ma era il 2004. Di acqua sotto i ponti ne è passata. Da capire se la proposta abbia avuto seguito, se si tratti dello stesso soggetto giuridico o se i commercialisti stiano lavorando a una versione aggiornata della Fondazione. Oggi intanto scade la richiesta del governo dei 3 milioni di euro alle mamme antifasciste. L’associazione nei giorni scorsi ha promosso una raccolta fondi per far fronte alle spese, e Boer ha fatto sapere che i soldi non ci sono. Vediamo come andrà a finire ma la strada è tracciata e la sinistra, che bercia contro il blitz delle forze dell’ordine e chiama alla mobilitazione perla manifestazione nazionale del 6 settembre, tira un sospiro di sollievo. La città un po’ meno. In questi giorni al Corvetto c’è voglia di protesta: «Qui è la fine della città, si spaccia e la gente ha paura... Il Leoncavallo? Speriamo non sia vento che soffia sul fuoco».