Milano sta assumendo sempre più un accento parigino. Non quello elegante, dei bistrot e delle luci soffuse, ma piuttosto quello delle banlieue, periferie degradate dove i ragazzini ostentano machete e gioielli, parlano in arabo e pubblicano post che paiono arrivare da Baghdad più che da Milano sud. Un processo di metamorfosi che ha avuto luogo nell’ultima decade, da quando, dieci anni fa, sono comparse le prime gang (spesso baby) nei quartieri più popolari e delicati della città. E come fa notare bene Fabiola Minoletti, vicepresidente del Coordinamento comitati milanesi e studiosa dei fenomeni urbani giovanili, oggi queste aggregazioni non fanno altro che crescere e radicalizzarsi come parassiti nel tessuto sociale, andando a minare la sicurezza delle strade per mezzo di scorribande notturne organizzate come vere e proprie spedizioni. Affatto raro, sulle pagine di cronaca milanese, leggere di scippi (si perde il conto degli orologi che sono stati portati via ai turisti quest’estate), risse con lame e il sempreverde spaccio di sostanze. Tutte attività predilette dai membri di queste baby gang, che spesso si accontentano di piccole estorsioni piuttosto che di grossi colpi. «Ho iniziato a studiare il fenomeno», spiega la vicepresidente del Coordinamento dei Comitati Milanesi, «analizzando il territorio a partire dalle prime scritte comparse nelle varie zone.
All’epoca non si capiva la simbologia utilizzata dai writer: poi, facendo varie correlazioni via social, ho unito i punti». E quello che emerge dall’ultimo dossier è un quadro tutt’altro che roseo: da aggregazioni nate come multietniche e inclusive, che potevano anche essere capaci di rappresentare uno strumento sano al servizio della collettività, oggi le varie Zeta (da Zona, abbreviato Z con il relativo suffisso numerico del Municipio) si sono fatte quasi esclusivamente arabe, orgogliose delle proprie origini nordafricane, fieramente rivendicate in ogni post e video. Si parla e si scrive in arabo. Non si vedono più felpe da discount, quanto piuttosto sportswear griffato alternato a tuniche bianche tradizionali con tanto di kefiah in faccia, come fossero nel deserto.
Sulle bacheche di Instagram, invece, si vedono immagini che sembrano trailer di un film criminale con poco budget: ragazzi col volto censurato che sventolano soldi, dita che disegnano segni violenti, armi esibite come trofei e minacce. Pistole (spesso finte, ma non sempre), coltelli e perfino machete. E attorno, l’estetica da banlieue: i blocchi di cemento delle case popolari come sfondo, scritte murali in arabo, rivendicazioni territoriali con il Cap di zona. La Z4 (Corvetto e Molise), la Z5 (Chiaravalle e Gratosoglio), la Z7 (San Siro) e la Z8 (Quarto Oggiaro) restano i poli principali. Ma non bastano più: nascono sottogruppi che si autoproclamano “Banlieue 20148” o “Secteur 23”, che ancora di più si isolano e si contrappongono agli altri, portando a un clima teso dove l’escalation di violenza è sempre a rischio. Si cerca di controllare pezzi di territorio, segnare la zona con minacce, pestaggi, coltelli. «È un nuovo modo di fare gangismo rispetto al passato», continua Fabiola Minoletti, «perché le vecchie gang, come la notoria MS13 ad esempio, non avevano alcun interesse nell’ostentare gioielli o altre ricchezze, anche e soprattutto per non rischiare riconoscimenti: questo, invece, potrebbe essere definito un gangismo neocapitalista, dove si compiono estorsioni proprio allo scopo di avere quel paio di scarpe nuovo o quella catena d’oro da mostrare a tutti con orgoglio».
Ma sui social si trovano anche i filmati di violenze senza mezzi termini, con aggressioni notturne a pedoni isolati, presi a pugni e calci in testa probabilmente per il rifiuto di consegnare i suoi averi, sempre che ne avesse. Il problema è che tutto questo non è soltanto più il risultato di una qualche forma estrema di ribellione adolescenziale, cosa che in un quartiere popolare può succedere, ma diventa una vera e propria costruzione identitaria: l’essere parte della Zona diventa marchio, appartenenza, quasi un passaporto sociale che vale come un’intimidazione. Nel 2015 le Zeta potevano nascere come bande di ragazzini di ogni nazionalità, spesso anche da milanesi di periferia, in cerca di identità nel loro quartiere percepito come marginale. Ne è un esempio il caso della Z4 (Viale Molise, Piazzale Cuoco, Corvetto, Piazza Insubria) di cui Rkomi, oggi iconica popstar arrivata fino al palco di Sanremo, è stato tra gli altri fondatore. Dieci anni dopo le nuove gang sono un fenomeno ben diverso, che intreccia estetica, lingua, violenza e appartenenza. «Queste gang sono diventate sempre meno multietniche: la prevalenza di oggi è chiaramente nord-africana», spiega Minoletti, preoccupata dal fatto che «secondo gli studiosi di queste dinamiche, il fatto che ci sia un unica etnia nelle nuove formazioni criminali non è mai un buon segnale». Ma parlare dei problemi, per quanto fondamentale, non basta. «Bisogna assolutamente trovare soluzioni di carattere sociale, perché è un evidente segnale di qualcosa andato storto nella gestione di queste realtà: per quanto mi riguarda, oggi stiamo patendo il risultato di generazioni di immigrati abbandonate a loro stesse», conclude.