Quando Piero Pirelli nel 1925 decise di costruire uno stadio - nei pressi dell’ippodromo, a sua volta realizzato cinque anni prima - lo considerò un regalo alla sua Milano. Oltre che al suo Milan, di cui era presidente dal 1909 e del quale era stato uno dei soci fondatori nel 1899.
Da grande appassionato di football, lo volle all’inglese, cioè senza pista di atletica, solo dedicato al calcio. I lavori iniziarono il primo di agosto del 1925 e nel settembre 1926, solo 13 mesi dopo, fu inaugurato. Un tempo di realizzazione che dovrebbe far riflettere (e impallidire) gli attuali responsabili della politica milanese.
L’impianto progettato dall’ingegnere Alberto Cugini e dall’architetto Ulisse Stacchini aveva quattro tribune rettilinee sui quattro lati del campo, una sola parzialmente coperta. In tutto poteva ospitare 35mila spettatori. Da allora ha subìto diverse ristrutturazioni per ingrandirlo, fargli assumere la caratteristica forma ellissoidale, dotarlo di un secondo anello, poi di un terzo e perfino di un nuovo nome, nel 1980, quando fu ribattezzato Giuseppe Meazza in onore del grande calciatore milanese due volte campione del mondo, nel 1934 e nel 1938.
Per i milanesi, però, in tutto il suo secolo di vita è sempre stato “San Siro”. “Stadio Meazza” può andar bene per le radiocronache, ma per chi da sempre lo raggiunge da piazzale Lotto, dai campi di Trenno o dalle viette di Quarto Cagnino, per chi ci gira attorno tutti i giorni e d’inverno lo vede emergere nella nebbia dai vialoni che lo circondano, resta “San Sir”. Un nome che riporta indietro nella storia di Milano e della Lombardia di oltre mille anni, e della quale i milanesi sentono ancora l’eco lontana.
Il nome di San Siro che identifica questa strana zona di Milano, da sempre periferia eppure al centro di tanta storia della città, deriva da una chiesetta nel IX secolo, in parte ancora esistente seppure seppellita tra i palazzi di via Masaccio e via Monte Bianco, a pochi metri da un altro monumento abbandonato della cultura popolare milanese, il Derby (guarda caso) di via Monte Rosa 84, locale chiuso nel 1985 che ha visto nascere molti dei migliori comici degli ultimi cinquant’anni. San Siro alla Vepra fu eretta nel 880 d.C. sulle sponde, appunto, della Vepra, canale che conduce le acque dell’Olona in città e che oggi scorre dimenticato sotto il manto stradale.
Un piccolo oratorio dedicato al primo vescovo e patrono di Pavia, formidabile figura di evangelizzatore del milanese e della Lombardia che visse nel IV secolo. Secondo una tradizione agiografica, Siro sarebbe stato il giovinetto con la cesta dei cinque pani e pesci che poi Gesù moltiplicò.
Sarebbe giunto in Italia al seguito di San Pietro e da lui inviato nella pianura padana dove divenne vescovo di Ticinum, nome latino di Pavia. Storie che si innestano nella secolare contrapposizione tra la Chiesa di Milano e di Pavia, ma che in ogni caso raccontano dell’antica devozione per questo santo.
Che quindi battezzò quel piccolo borgo rurale alle porte di Milano. Nel 1200, poi i benedettini diedero in affitto il terreno agli umiliati e duecento anni più tardi, nel 1454 ricorsero alla nobiltà locale per restaurare la piccola chiesetta in cambio dell’affitto dei loro terreni e dei mulini sul corso d’acqua. Il restauro terminò nel 1482, anno importante per Milano perché fece il suo ingresso in città Leonardo da Vinci. La gloria rinascimentale della chiesa e dei suoi affreschi però durò poco e due secoli dopo i nuovi proprietari, i Pecchio, abbatterono la parte anteriore dell’edificio per costruire una villa destinata a rientrare più volte nella storia italiana e milanese. È, infatti, in questa villa che nel 1821 Giuseppe Pecchio riunì i patrioti italiani (poi tutti arrestati) per chiedere l’intervento dei Savoia contro l’Austria. E durante la Seconda Guerra Mondiale, la residenza, nel frattempo passata ai Fossati, fu scelta come base dalla famigerata banda Koch, squadraccia della polizia fascista che trasformò la lussuosa abitazione in una camera di tortura.
Motivo per cui, al termine del conflitto, i Fossati non vollero più rientrare nella villa e la cedettero ai missionari del Pime che la affidarono alle Missionarie dell’Immacolata che tutt’ora la custodiscono e che hanno anche restaurato gli affreschi quattrocenteschi presenti in quel che resta della chiesa annessa alla residenza.
Una lunga storia, intrecciata a quella della città e al nome di San Siro, a cui i milanesi continuano a restare devoti, anche se ormai della chiesa si ricordano in pochi e i più frequentano il tempio laico costruito da Pirelli. Un santuario che alla liturgia pallonara nel tempo ha unito anche quella musicale (non sarà un caso che lo chiamino “la Scala del calcio”) ospitando concerti entrati nella storia e nella mitologia personale di tanti, a cominciare da quello leggendario di Bob Marley, nel 1980, quello ricordato anche dal romano Venditti. E poi i concerti di Springsteen, quello di David Bowie nell’87, Michael Jackson, gli U2, la lunga serie degli spettacoli di Vasco Rossi...
Una infinita collana di ricordi che si alternano ai trionfi rossoneri e nerazzurri, gli uni testimoniati dalle targhe poste lungo una rampa del secondo anello, lato ovest, gli altri dagli occhi lucidi di chi quegli spettacoli continua a rimpiangerli e che ora con i capelli bianchi si lamenta dei concerti di oggi, «che questo è rumore, mica musica».
È il destino di San Siro, amato e odiato, periferia e centro di vita, zona di residenza dei veri sciuri di Milano e banlieu ribollente dell’odio di chi di questa storia non si sente parte.
Chi vive e si muove intorno allo stadio continua ad amare il suo mastodonte e pure a odiarlo per il traffico, il rumore, i parcheggi. I milanesi guardano il loro vecchio stadio e sperano di vederne uno nuovo perché le novità scorrono come eccitanti nel sangue di una metropoli capace di rinnovarsi e ricostruirsi di continuo. E poi aderiscono alla raccolta firme per salvare un patrimonio culturale della loro Milan, che l’è semper un gran Milan. E soprattutto per il timore di veder crollare il monumento della loro giovinezza, degli amori e delle “luci” cantate da Vecchioni, gonfio di grida e musica, di vittorie e di sconfitte, di fughe ed eroismi. E di nostalgia per ciò che non tornerà più, come l’acqua della Vepra che scivola, inascoltata, sotto un bavaglio di asfalto.