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Vittorio Feltri contro gli "imbecilli" che processano il dizionario: "Perché preferisco il turpiloquio"

di Davide Locano domenica 22 luglio 2018

2' di lettura

Il processo alle parole di uso comune è diventato uggioso. I comandamenti del politicamente corretto stabiliscono quali sono i vocaboli leciti e illeciti, e chi sgarra e ne usa altri viene messo alla berlina o addirittura condannato dalla legge e dagli ordini professionali, per esempio quello ridicolo dei giornalisti. Per i quali è vietato scrivere che un negro è un negro. Bisogna dire nero. Quasi che ci fosse una differenza sostanziale fra i due termini. Che invece non esiste. Tanto è vero che in Lombardia, nelle forme dialettali assai diffuse, nero si dice negher. «Mi go una giaca negra» è una espressione sulla bocca di tutti. Negher è un sinonimo di nero. Non ha valenze negative, o peggio, spregiative. Ricordate la poesia: «...sotto la terra fredda... la terra negra...». A nessuno è mai venuto in mente che la lirica in questione fosse offensiva. Anche la Nigeria dovrebbe, applicando la logica dei fighetti, cambiare nome. Ada Negri sarebbe obbligata a mutare identità? Stiamo rasentando il ridicolo. Molti lettori ricorderanno alcune canzoni: «Siamo i vatussi, altissimi negri, ogni due passi facciamo tre metri...». Oppure: «In una foresta del centro Catanga c’è una tribù, una tribù de negher del menga...». Censuriamo anche queste? Io sono stato processato (tre anni) dalla mia corporazione perché avevo stampato sul Giornale questo titolo: «Hanno ragione i negri». Mi riferivo agli immigrati in Calabria che raccoglievano i pomodori e venivano trattati quali schiavi. Invece di perseguire i negrieri, misero alla sbarra me. Fui assolto. Leggi anche: "Con tutti quei soldi...": Feltri, il siluro contro Gad Lerner Veniamo ai froci, alle checche, ai finocchi, ai busoni. Guai a denominarli così. È necessario definirli gay, cioè in inglese. O omosessuali, gergo medico. Non possiamo usare l'italiano o il lessico regionale che pure ci appartiene. A Bergamo «gay» significa soldi. Quando ero giovane i culattoni erano appellati in maniera diversa: pederasti. Poi diversi. Ma che bisogno c’è di stravolgere l’idioma se un frocio rimane comunque un frocio a prescindere dall’epoca in cui esercita? Un ricchione non cambia gusti sessuali se lo etichetti gay. Dov’è il problema? Il vocabolario, l’eloquio popolare ha il pregio della sincerità; quello del politicamente corretto è ipocrita, falso, artificiale. Preferisco il turpiloquio, quello da trivio, che almeno è spontaneo. Quelli che per fare i fini senza esserlo dicono masturbazione anziché pippa o ditalino sono sciocchi. Masturbazione infatti deriva dal latino: manu stuprare. Che evoca una immagine orrenda. Uno che si stupra da solo come minimo è da ricoverare. Cito a memoria e posso sbagliare. Il diritto canonico, che pochi conoscono, era assai più scientifico e preciso. Recitava: «plena satisfactio libidinis cum effusione seminis sine copula». Molto elegante. Ma si fa prima tra amici a dire: pugnetta. Portare il dizionario in tribunale è da imbecilli. di Vittorio Feltri

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