A tu per tu

Giovanni Orsina, la profezia: "Quanto durerà Giorgia Meloni"

Fausto Carioti

Davanti ad una sinistra senza più idee e ad una Ue frammentata, fatta di Stati deboli che non possono permettersi di isolare l'Italia, Giorgia Meloni ha l'opportunità storica di governare a lungo, difendere l'interesse nazionale e ritagliarsi uno spazio importante in Europa. A patto di non fare errori nella gestione delle politiche identitarie, spiega Giovanni Orsina, ordinario di Storia Contemporanea e direttore della School of Government della Luiss.

Professor Orsina, come si è mosso il presidente del consiglio in queste prime settimane?
«Abbastanza bene. Ha parlato poco: ottimo. Si è mossa molto sul terreno internazionale per accreditarsi: ottimo. Ha impostato una legge di stabilità prudente e concordata con Bruxelles: ottimo. Poi il governo ha fatto delle sortite identitarie, più simboliche che sostanziali: sui rave party, l'ergastolo ostativo, i migranti...».

Doveroso nei confronti di chi ha votato per i partiti della maggioranza, non crede?
«Diciamo che in una certa misura era necessario, ma queste cose devono essere fatte in maniera meno estemporanea e più meditata, altrimenti si rivelano controproducenti. Falliscono, costringono alla retromarcia o portano a conseguenze negative, come l'inutile, anzi dannoso, conflitto diplomatico con la Francia. Questo governo ha una solida prospettiva temporale davanti a sé, può permettersi di mettere in campo un paio di politiche identitarie ben meditate e serie. Lo faccia».


In politica estera si nota un doppio binario. Lungo l'asse atlantico i rapporti sono ottimi, confermati dall'incontro col segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e dal colloquio programmato con il presidente americano, Joe Biden. Con la Francia sono tornati invece ai minimi storici, tanto che Parigi ha chiesto agli altri Paesi europei di smettere di partecipare al meccanismo di ricollocamento dei migranti. C'è il rischio di un isolamento internazionale dell'Italia meloniana?
«Direi più no che sì. Le reazioni francesi sono state sproporzionate e, infine, controproducenti. Proprio la richiesta di isolare Roma, che lei menziona, è stata ignorata dagli altri partner europei. Anzi, la Germania ha subito aperto all'Italia, ben felice di trovarsela regalata da Parigi. I francesi si sono fatti male da soli».

Non vede un blocco anti -italiano in Europa?
«No. Il quadro europeo è troppo frammentato, gli attori sono troppo deboli per potersi permettere di isolare l'Italia. Il che non vuol dire che il governo Meloni possa fare quel che vuole, ma che ha una vera opportunità di fare politica in maniera seria e costruttiva, nell'interesse nazionale. La sfrutti».

Ma qual è il confine tra la difesa dell'interesse nazionale italiano e l'esigenza di mantenere un rapporto di collaborazione con la Ue e gli Stati europei (anch' esso necessario, peraltro, alla difesa dei nostri interessi)?
«Difficile dirlo in astratto. Diciamo che il gioco europeo prevede che tutti difendano i propri interessi, purché avvolgano il nazionalismo, di fatto, in una spessa glassa di retorica europeista. Ridurre il volume delle sparate sovraniste e accrescere le proprie capacità negoziali sarebbe già un buon punto di partenza, insomma. Dopodiché, come dice anche lei, sempre di difesa dell'interesse nazionale si tratta, e questo deve fare un governo nazionale. Bisogna capire dove conviene di più difenderlo muovendosi da soli, e dove invece partecipando al gioco comunitario. Al quale, è bene dirlo con la massima chiarezza, non possiamo permetterci di non partecipare».

È dal "vincolo esterno", incluso l'altissimo debito pubblico italiano, che possono venire i pericoli peggiori?
«Sì. La sostenibilità del debito pubblico rimane un problema enorme. La demografia è avversa, la produttività non cresce, i tassi invece salgono. Il Pnrr sta passando dalla carta al mondo reale, là dove il nostro apparato amministrativo, tradizionalmente, fatica di più. Brutta situazione».

Sul fronte interno, gli unici problemi al premier possono venire oggi da Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Che partita sta giocando il Cavaliere?
«Berlusconi, una volta terminati i negoziati sul governo, è rientrato nell'ombra. $ possibile che lavori a moderare il governo, a tenerlo ancorato al centro. Il che sarebbe un bene, a mio avviso. Non mi pare che Forza Italia abbia sufficienti coesione interna e chiarezza d'intenti per creare vere difficoltà al governo, invece».

E il segretario della Lega?
«Salvini si agita di più. Lo fa alla Salvini, ossia cercando soprattutto visibilità. $ un problema - lo è stato sui migranti e con la Francia - ma nei prossimi mesi non vedo venire grossi pericoli per il governo neanche da questa parte. Anche la partita delle regionali lombarde, che poteva rappresentare un punto di frizione, mi pare risolta con la conferma di Fontana.
Salvini può esser soddisfatto».

Del resto: esistono alternative a questo governo, per Forza Italia e Lega?
«No. Salvo shock esterni, ad esempio sul debito, questo governo dovrebbe arrivare senza enormi scosse fino alle europee del 2024. Dopo quelle, vedremo».


Chi oggi non pare in grado di impensierire il governo è il Pd. Per i democratici italiani, l'incubo è fare la fine del Partito socialista francese: 6,2% alle politiche del 2019, 1,8% alle presidenziali di quest' anno. Schiacciati, come i loro cugini d'oltralpe, tra Conte-Melenchon e Calenda-Macron. È uno scenario concreto?
«Sì, anche se il nocciolo duro dell'elettorato del Pd, fra il 15 e il 20% circa, è piuttosto stabile e tenace. Tuttavia la crisi politica dei democratici - divisioni interne, incertezze strategiche, assenza di leadership - appare davvero profondissima. E non mi sembra sia soltanto una crisi politica, ma una ben più ampia e grave crisi culturale».

La sinistra non ha più idee?
«Pare proprio di no. Sono molto sorpreso dall'afasia dell'intellighenzia progressista, dalla debolezza dei loro maîtres à penser, dalla ripetitività dei loro argomenti, dalla loro sempre più flebile capacità di reazione. $ come se fossimo giunti al termine di un ciclo storico, e quel tipo di cultura avesse esaurito la propria capacità di mutare e adeguarsi ai tempi. In una situazione come questa, è chiaro che a forze politiche "leggere" con leader solidi e spregiudicati, come Conte e Calenda, si presentano opportunità molto interessanti».

A marzo, forse prima, i democratici avranno un nuovo leader. Esiste un segretario ideale, che possa tirarli fuori dai guai?
«Probabilmente no. Ma di quelli dei quali si parla, la figura che ci si avvicina di più è Stefano Bonaccini. La crisi della cultura progressista è crisi di astrattezza, di un "mondo pensato" che si è distanziato sempre di più dal "mondo vissuto" di tantissimi italiani. Gli amministratori locali del Pd, e ce ne sono tanti di bravissimi, sono rimasti vicini al mondo vissuto. $ da loro che, secondo me, si dovrebbe ripartire».

Elly Schlein si è già candidata. Piace molto a Enrico Letta e a Dario Franceschini. Può essere lei quella giusta?
«Se la mia diagnosi è corretta, no. Schlein rappresenta proprio quella cultura astratta che a me pare in profonda crisi: una cultura progressista militante, incentrata sulla promozione dei diritti globali, che fatica sempre di più a parlare agli italiani al di fuori di quel quinto che già vota per il Partito democratico. Non dimentichiamo che la concorrenza da sinistra del M5S al Pd ha fatto forza sul reddito di cittadinanza: mondo vissuto, ancora una volta, ben più che mondo pensato. Il profilo di Schlein non mi sembra vada in quella direzione»