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Gianfranco e Luca Vissani: "La cucina di oggi? Ormai i piatti sono tutti uguali"

Hoara Borselli
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Uno dei grandi chef, Pietro Leemann, ha deciso di ritirarsi sui monti in convento. Ma perché? Non è forse un mestiere meraviglioso, quello dello chef? Lo abbiamo chiesto al numero uno degli chef italiani, Gianfranco Vissani, 73 anni, umbro, tipo focoso che quando parla non usa molti sofismi. Più politicamente scorretto di lui non c’è nessuno.

Gianfranco, ha visto l’intervista al Corriere della Sera rilasciata di Leemann? Sembra proprio che finirà in convento...
«Leemann è uno chef molto bravo. Ha creato un posto a Milano dove moltissima gente va a mangiare. Poi lui cucina solo verdure...»

Sì, fa una cucina vegetariana. E ha detto: «Basta, ora io voglio ritirarmi per fare il monaco sui monti».
«Lo fece anche San Benedetto da Norcia..».

Non le sembra un po’ eccessivo?
«Lui lavora a Milano. E a Milano la cosa è complicata. Non è come se vai in bassa Italia: due balletti e va tutto bene. No: a Milano è difficile lavorare. La gente pretende. E poi, sa: oggi la ristorazione è finita. $ inutile che ci giriamo attorno. Non ci sono soldi in circolazione. Lo dice anche Briatore: il cassetto è vuoto, il personale costa soldi. Il personale vuole lavorare sei ore e non di più, vuole stare sabato e domenica a casa e vuole divertirsi».

 

 

 

Son finiti gli anni Novanta?
«Da un pezzo. E poi recentemente, prima la pandemia, poi due guerre: è crisi dura».

La gente non mangia più bene? Cioè, non vuole cibo di qualità?
«No, i ragazzi si ingozzano di snack, mangiano quello che trovano per strada. La qualità del cibo è scadente».

Secondo lei è diventato talmente esasperante questo lavoro che uno alla fine dice: basta, troppo stress, vado a fare l’eremita?
«No, non dico così. Però certe volte ti fa perdere la voglia. Si lavora fino alle 4 di mattina. La materia prima è cara come l’oro, il personale costa tantissimo. E non è che puoi alzare troppo i prezzi, perché l’Italia non è ricca. La ricchezza la trovi nelle grandi città, ma l’Italia è un paese rurale».

E quindi si perde la competitività?
«Eh già. Lei capisce, se io devo pagare 450 euro per andare a mangiare al ristorante, io ti dico: “Ma siete matti?”. Sempre che non parliamo di vini. I prezzi dei vini sono stellari!».

I ragazzi che lavorano si trovano difficilmente?
«Ma li hai visti, i ragazzi? Con le famiglie che gli stanno appresso e gli dicono: “Ti vedo sciupato...”. Ma li hai visti quando vanno a scuola? Col piercing, le minigonne, coi telefonini sotto il banco... Ma io dico: ma che scuola è? E gli universitari? Baccagliano perché non hanno l’università sotto casa! Si è rivoltato il mondo, si è rivoltata la vita...».

Mi parla dei suoi inizi?
«Entravamo alle sei di mattina e alle due di notte eravamo fuori. A Villa Miani, con il mio maestro Giovanni Gavina. Ogni tanto gli dicevo: chef, ma a casa... Lui mi interrompeva: “Ma quale casa, ma che sei matto?” Lo passavo a prendere all’alba con la macchina e quando arrivava a Villa Miani si tuffava in piscina perché non aveva avuto il tempo di fare la doccia. E poi avanti in cucina: senza sosta fino al mattino».

E se oggi dice a un ragazzo di fare così?
«Ti saluta e va via. I giovani so’ così. Ma le hai viste le cassiere al supermercato? Ma che, sono concentrate? Nooo. Chiacchierano tra di loro. E poi le unghie? Un metro di unghie. Ma come si fa? Non c’è più disciplina. E se gli dici qualcosa ti denunciano».

Qualcuno bravo non si trova?
«Sì, su venti che provi uno è bravo. Gli altri stanno lì e non imparano niente...».

L’internazionalizzazione, l’Europa, l’unificazione delle mentalità, non aiuta?
«Ma quale unificazione? L’italiano resta italiano, il francese francese, il tedesco tedesco. Stati Uniti d’Europa? Vogliamo fare come gli americani, che per fare gli Stati Uniti prima hanno ammazzato tutti gli indiani?».

Ha faticato molto in gioventù?
«E certo. Mi ricordo quando spalavo il carbone, per ore. Mi dicevano: ”Vai col carbone, che la piastra deve arroventarsi”. E mi ricordo il banchetto della Titanus: migliaia di invitati e sette cuochi in cucina. Un culo così...».

I ragazzi dicono di guadagnare poco.
«Io prendevo due o trecento mila lire al mese. Quando andava bene...».

Però imparavi.
«Al Grand Hotel di Rimini guadagnai 25 mila lire al mese. Una fatica bestiale. E dormivo al dormitorio».

Oggi?
«E' cambiato il mondo. Siamo nella merda».

Però si mangia meglio...
«Macché. I piatti sono tutti uguali. Ognuno copia gli altri. Anche il vino, ormai si preferiscono i prodotti chimici. Vuoi un barbaresco? Te lo sanno fare col prodotto chimico».

E i contadini?
«Hai visto che protestano? Ecco perché protestano. Le grandi multinazionali stanno distruggendo il mondo. Hai mai visto un allevamento intensivo? Un orrore, uno scempio. Le multinazionali vogliono solo denari».

 

 

 

Però, tra i giovani, quello dello chef, forse anche grazie alla televisione, è diventato un mestiere ambito.
«Beh, quello che fanno vedere in tv è un’altra cosa. Poi devi vedere dietro le quinte che cosa succede. Io sono andato e vado in tv. E so quel che va in onda e quello che non va in onda. Oggi l’immagine del cuoco è talmente cambiata che i ragazzini pensano che fare il cuoco voglia dire andare in televisione. Eh no. Se vuoi un ristorante, devi lavorare sodo».

Per diventare chef ci vuole talento o studio?
«Ci vuole la forza di volontà che hai dentro. E poi conoscere la materia prima. Picasso sapeva che per fare bene il nero doveva mettere anche il verde. Si, talento, arte, ma anche conoscenza. Devi sapere se lì metti il rosmarino o il melograno. Poi ci sono quelli che fanno finta di sapere e ti dicono: l’acido, l’acido, l’acidità del piatto... Ma facciamola finita! Ma che ne sai dell’acido? Dico io: ma imparate a cucina’, invece delle chiacchiere!».

Il lavoro dello chef è solo per ricchi?
«No. Ci sono dei ragazzi che vengono dalla gavetta: Francesco, Flavio e Martina, sono dei ragazzi che ho da me e sono di una specie unica e rara. Danno la vita per fare questo mestiere».

Ma per imparare si deve andare all’estero?
«Ogni tanto uno mi dice: sì, vado a Londra. E che vai a fare a Londra? Gli inglesi non sanno cucinare. E nemmeno gli spagnoli, che usano i prodotti chimici».

È meglio la cucina francese o quella italiana?
«Allora: sapori italiani, colori giapponesi e tecnica francese. I francesi sfilettano le triglie. Niente spine. Quella è tecnica».

Lei, Gianfranco, è sempre innamorato di questo mestiere? Non la stanca mai?
«Ho dato la mia vita per questo lavoro. Avevo 13 anni e sono andato a fare il cuoco a Spoleto. Poi Rimini, Roma, Firenze... Ho sempre cercato emozioni».

Chi è stato il suo maestro?
«Giovanni Gavina. Mi ha insegnato tante cose. Tutti i giorni, fino a notte».

E oggi chi insegna?
«La scuola alberghiera. Ma ti fa perdere un sacco di tempo. Dopo tre anni non sai ancora se vuoi stare in cucina o in sala».

I cuochi italiani sul piano internazionale valgono?
«Ti dico solo una cosa: la Cesar Salad l’hanno inventata due cuochi abruzzesi...».

Lei ha avuto successi enormi. E delusioni?
«Certo. Sempre. Tutti i giorni. La vita è piena di trappole, di buche. Bisogna rialzarsi e andare avanti, piano piano».

Mi racconti una sua delusione.
«Beh, soprattutto in amore: certe scoppole...».

Suo figlio lavora con lei?
«Certo. E' decisivo. Anzi, è qui. Ti ci faccio parlare».

Luca, lei che rapporto lavorativo ha con suo padre?
«Lui è il mio mentore. Negli anni Ottanta era tutto più difficile. Non si mangiava per cultura, si mangiava per sfamarsi».

Che idea ha di cucina?
«Semplice: quando un sapore ti esplode in bocca».

L’intelligenza artificiale sostituirà gli chef?
«Sì, certo. Sostituirà anche i governi. E' molto pericolosa. Io sono pro tecnologia, ma a tutto c’è un limite».

Lo chef Leemann ha detto che smette di fare lo chef stellato e va a fare l’eremita sui monti. Suo padre si ritirerà mai in convento?
«Se mio padre andasse in convento, scapperebbero le suore. Meglio di no!». 

 

 

 

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