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Zuppi si chiede ancora: se fossi stato io Papa...

Le riflessioni sul Conclave e Leone del capo della Cei, ovvero il cardinale rimasto tale
di Giovanni Sallusti sabato 17 maggio 2025

3' di lettura

Rischia di prendere piede un nuovo genere giornalistico, molto indotto, tutto strumentale, ma che insomma deve pur attecchire su un moto della coscienza soggettiva. Il soggetto è il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo metropolita di Bologna e presidente ultra-bergogliano della Conferenza Episcopale Italiana. Nonché uno dei nomi che, loro malgrado, ricorrevano nel gioco frivolo del Toto-Papa durante i giorni del Conclave.

Nel caso di Zuppi qualcuno, per la verità più dentro la bolla del mainstream laicista che dentro i sussurri vaticani, spendeva perfino il suo nome come favorito. E qui torniamo alla saga, assai stucchevole, che si sta sviluppando in questi giorni, e consiste sostanzialmente nell’avvicinare un microfono a Sua Eminenza, ricordargli che poi così non è andata, che abbiamo il Papa americano, e vedere l’effetto che fa. Effetto che, intendiamoci, può ben contemplare del fisiologico fastidio, del profano rosicamento si direbbe in altri contesti, ma mostrarlo è inutilmente ridondante, e provocarlo è furbetto.

Certo l’uomo, prima ancora che il cardinale, non pare insensibile al tema. Ad esempio pochi giorni fa, proprio durante la Messa di ringraziamento per l’elezione di Papa Leone XIV officiata nella cattedrale bolognese, ha inserito nell’omelia alcune osservazioni non prettamente teologiche. «Non facciamo i confronti (ognuno è diverso e per fortuna!) per poi non stare a sentire nessuno ed essere attenti alle classifiche, finendo così per dare importanza a caratteristiche spesso esteriori».

Qualcuno deve essersi annotato l’impressione di non elaborazione piena, visto che sfruttando la vittoria del Bologna in Coppa Italia ieri lo hanno sondato sia La Stampa che il Quotidiano Nazionale. Schema analogo: paginata sull’impresa rossoblu (anche se Zuppi confessa di non aver visto la partita perché «sennò mi coinvolgo troppo») e in coda allusione al fatto, o al fattaccio. Sul quotidiano torinese: «In molti speravano che lei diventasse Papa...». «Io mai l’ho sperato». L’intervistatore non si accontenta, e va giù piatto: «È contento di Leone XIV?». «Di più: sono felicissimo per Papa Prevost. E sono felice per il Vescovo Matteo». Diciamo che si sono lette rassicurazioni piú convincenti.

Sul QN la si prende più larga: «È inevitabile non trasferire un pensiero a quanto accaduto nel mistero del Conclave. Cosa le resta di quei giorni?». La risposta è uno squillante elogio del Papato di Francesco, e pare assai esplicativa. Per combinazione (?), ieri il cardinale era anche microfonato in prima persona, ospite al Salone del Libro in un Matteo Zuppi dialogo programmaticamente pop con Luciano Ligabue. Forse ispirato dal contesto, ha svolto uno di quei teoremi tra politica e fede che nell’incasellamento mediatico lo hanno fatto arruolare tra i campioni del catto-progressismo porporato. «Dio non cancella l’Io, l’universale non cancella il locale. Il sovranismo non ha futuro, fa male al Paese. Chi ama la patria butta via le frontiere». Ma soprattutto, è tornato sul punto, e comincia ad apparire una coazione a ripetere. «Mi sono chiesto cosa avrei fatto se fossi stato io al posto del nuovo Papa e ho pensato che avrei fatto come nel film di Nanni Moretti» (Habemus Papam, riferimento ideale per i cinephile mediamente acculturati ma non eccessivamente credenti presenti in quell’uditorio). Ovvero: «Mi sarei affacciato, dopo avere visto tanta gente avrei richiuso il finestrone e avrei detto non ce la faccio». Va bene, perfino noi modesti scribacchini arriviamo a capire che il cardinale Zuppi non l’ha superata. Perlomeno, smettetela di chiederglielo.

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