Giovanni Gentile, un filosofo di dimensione europea per anni dimenticato in patria

Centocinquanta anni fa nasceva il maggior pensatore italiano del Novecento insieme a Croce. Ha tracciato la via d’uscita dal positivismo, ma a lungo è rimasto prigioniero del suo legame col fascismo
di Corrado Oconegiovedì 29 maggio 2025
Giovanni Gentile, un filosofo di dimensione europea per anni dimenticato in patria
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Nel 1989 Salvatore Natoli, uno dei più importanti filosofi italiani, pubblicò un breve ma denso libro che intitolò: Giovanni Gentile, filosofo europeo. Si trattò di un evento a suo modo memorabile, per almeno due motivi: perché quel volumetto “sdoganava” Gentile nella comunità filosofica più accreditata (del grande filosofo italiano non era lecito parlare per la sua adesione al fascismo); e perché, lungi dal ridurlo ad un pensatore espressione di un’Italia retriva e provinciale, ne metteva in piena luce la dimensione europea (che in quel frangente significava mondiale).

Questa dimensione, per Natoli, consisteva in due principali elementi: Gentile, così come Croce, pur inserendosi in una tradizione linguistica e filosofica tutta italiana, partecipò a quel vasto e vario movimento di reazione al positivismo che attraversò l’Europa a cavallo fra i secoli XIX e XX; egli, in particolare, smontò, come a loro modo fecero tutti i grandi pensatori del tempo (Husserl, Heidegger, Wittgenstein), le categorie su cui si era costruita la filosofia, ovvero la metafisica, occidentale. Il centro del pensiero gentiliano è, come noto, l’Atto puro, che è qualcosa che sempre ci accompagna e sempre ci trascende, nel doppio senso che non lo afferriamo e in quello che ci si presenta con la più assoluta gratuità e imprevedibilità. Esso, in sostanza, può essere affiancato all’Essere heideggeriano o al pre-categoriale “mondo della vita” di cui parlava Husserl.

L’ATTUALISMO
Ma cosa è propriamente l’Atto dell’“attualismo”, come è definito l’idealismo di Gentile? Egli, per far intendere ai suoi lettori cosa intendesse, usa una metafora particolarmente efficace: ci dice di pensare al fuoco che brucia. Per bruciare, il fuoco ha bisogno della legna, odi qualsiasi altro combustibile, ma esso è appunto qualcosa che va oltre il semplice materiale che lo mette in azione. In sostanza, la legna è la realtà che ci si presenta davanti agli occhi nelle sue mille e svariate forme e il fuoco è il “dio che è in noi stessi”, dopo tutto indifferente alle forme concrete in cui si manifesta ma di cui pure ha necessariamente bisogno (il pensiero di Gentile, per quanto pervaso da un senso profondo di religiosità, si colloca in un orizzonte di immanentismo assoluto).

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Ovviamente il fuoco che brucia è il Pensiero, che è sempre in atto e che, nel momento in cui è reso oggetto, diventa pensato e non è più pensiero. Da qui Gentile mette in moto una poderosa macchina logica che scardina ad uno ad uno tutti i concetti e i fatti del reale, riconducendoli alla loro origine ideale. Ad essere messa in crisi è, prima di tutto, la distinzione di pensiero e azione, teoria e prassi: «Il pensiero», egli scrive nel suo Sistema di logica (1917) «non conosce se non realizzando se stesso, e quel che conosce non è altro che questa stessa realtà che si realizza». È indubbio che per questa parte il pensiero di gentile si avvicina pericolosamente a quello marxista, come è evidente nella sua prima opera importante: quella Filosofia di Marx, che uscita nel 1899, suscitò una vasta eco in Europa, tanto che persino Lenin, leggendola, la apprezzò e citò. Se per farsi il pensiero deve consumarsi nel reale, cioè vivere la vita, si può ben sottoscrivere la famosa XI Tesi su Fuerbach di Marx: «I filosofi finora hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo».

Benito Mussolini, che aveva una certa cultura e a cui non mancava la vena sarcastica, ebbe a dire, alludendo a Gentile, che l’ultimo marxista militava proprio nelle fila fasciste. Quando scrisse l’opera su Marx, Gentile aveva solo 24 anni, ma già una laurea ottenuta alla Normale di Pisa, ove era arrivato con una borsa di studio (lui di famiglia poverissima) grazie agli uffici del prete del paese, Castelvetrano (provincia di Trapani), in cui era nato il 29 maggio 1875, cioè giusto 150 anni fa.
Proprio in quegli anni, egli prende contatti con Benedetto Croce, di cui diventa il più assiduo sodale e fedele collaboratore. Insieme concepiscono La Critica, la rivista ove Gentile si ritaglia uno spazio tutto filosofico. Le divergenze intellettuali, pur mascherate da un rapporto affettuoso quasi da padre (protettore) a figlio (Croce, che gli sarebbe sopravvissuto, era di quasi dieci anni più anziano), si manifestarono negli anni 1913-’14, in quella Polemica fra filosofici amici che, svoltasi sulle pagine de La Voce di Giuseppe Prezzolini, può a buon diritto essere considerata uno dei momenti più alti della filosofia italiana del Novecento.

In essa, Croce opponeva all’unione di pensiero e reale dell’amico la sua visione dei distinti: per lui il bello, il bene, l’utile, non possono essere ridotti alla logica, pena lo scadere in un monismo che è propedeutico ad una concezione autoritaria e persino “totalitaria” della vita. Letta in questa dimensione, la rottura fra i due filosofi, che si consumò nel 1924 e si espresse l’anno dopo con la stesura dei due Manifesti (quello degli intellettuali fascisti di Gentile e l’altro dei “non fascisti” di Croce), aveva motivi teorici precedenti a quelli politici manifestatisi con il farsi regime del fascismo. Al regime, Gentile aderì convintamente, fino all’ultimo, con spirito di lealtà. Egli però rappresentò solo una delle varie correnti di un fenomeno che fu più composito di quanto si dice, fra l’altro avversato dagli uomini più vicini al Duce. La sua idea era che il fascismo, continuando l’opera del Risorgimento, avrebbe dato un’identità morale e culturale alla nazione italiana. Fu una pia illusione che si snocciolò negli anni della dittatura e approdò al suo esito tragico (Gentile fu ucciso dai partigiani in un agguato a Firenze il 15 aprile 1944). Oltre che un grande pensatore, Gentile fu un infaticabile organizzatore di cultura (dalla Normale alla Treccani). Il suo influsso filosofico fu notevole, ma molti dei suoi allievi non lo riconobbero nel secondo dopoguerra per motivi politici e di carriera. La sostanziale irrilevanza dell’ultima filosofia italiana ha forse in questo “parricidio” (e anche in quello di Croce) la sua radice più profonda.