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La triste storia del sole che ride

Il movimento verde ha fatto strada, e ancora di più ne ha fatta fare a coloro che li hanno cavalcati
di Fausto Carioti sabato 7 giugno 2025

3' di lettura

È una storia triste, anche se è la storia del Sole che ride ed era iniziata con una bella canzone: «Là dove c’era l’erba ora c’è una città...». Nel 1966 Adriano Celentano portò a Sanremo Il ragazzo della via Gluck e Fulco Pratesi fondò la sezione italiana del Wwf. Fu l’esordio ufficiale del movimento verde. Celentano venne eliminato alla prima serata del festival, ma quei temi lì hanno fatto strada, e ancora di più ne hanno fatta fare a coloro che li hanno cavalcati. Mauro Suttora li conosce bene, ne ha scritto su L’Europeo, Newsweek e altre testate, e ora porta in libreria il racconto che non c’era: Green. Da Celentano a Greta. Storia avventurosa degli ecologisti (Neri Pozza editore, 280 pagine, 20 euro). È un’Antologia di Spoon River in inchiostro verde, un cimitero di uomini e ideali, dove i pochi che si salvano sono quelli che se ne sono andati anzitempo, come l’italiano Alexander Langer e la tedesca Petra Kelly. Il gruppo più nutrito è quello degli arricchiti. Golden Grünen, «Verdi dorati», li chiamano in Germania. Percorsi come quello di Joschka Fischer, che iniziano con il Sessantotto, Marx e Mao, e finiscono a fare strapagate consulenze per multinazionali come Bmw e Siemens. «Devo rendere conto solo al fisco. Questo è il vantaggio della mia ultima trasformazione», rivendica l’ex ministro tedesco.

Archetipi che conosciamo anche in Italia. Vedi alla voce Giovanna Melandri, da dirigente di Legambiente al Pds-Pd e da lì alla sua Human Foundation, che si presenta come «ente privato di ricerca e consulenza che promuove soluzioni innovative ai crescenti bisogni delle comunità». Dice lei: «Mi rimproverano di voler portare la finanza mainstream dentro una dimensione socioambientale e di voler dare regole al mercato dei capitali. Rivendico entrambi gli intenti». Dirigismo pubblico e arricchimento privato, amici da sempre. Ci sono le aziende che più fatturano sporcando e più devono spendere per ripulirsi l’immagine, e le grandi fondazioni dei «miliardari per l’ambiente», come il Climate emergency fund, creato da Rory Kennedy (figlia di Bob) e Aileen Getty (erede della dinastia di petrolieri), che finanzia i catastrofisti climatici di tutto il mondo, inclusi Extinction rebellion (quelli che hanno scaricato quintali di letame davanti al Viminale) e Ultima generazione (gli ecocafoni che si sono incollati alla Primavera del Botticelli).

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Tanti anche quelli che sono finiti col pugno chiuso e la kefiah, come Greta Thunberg. «L’ambientalismo ha ereditato dal comunismo una spiacevole caratteristica, quella di opprimere le persone nel nome di un’ideologia, di obbligarle per il loro bene a far cose che non vogliono fare»: è la testimonianza, riportata da Suttora, del professor Ugo Bardi, del Club di Roma, l’associazione che nel 1972 pubblicò il rapporto I limiti dello sviluppo. Ma era inevitabile: se vuoi costringere il prossimo a seguire i precetti dell’ecologismo catastrofista, devi passare attraverso uno Stato (meglio ancora un super-Stato europeo) che abbia la pretesa di «mettere le mutande al mondo». Scomparsi, invece, quelli come Langer, i cui progetti erano agli antipodi dal Green deal. «Una politica ecologica punitiva che presupponga un diffuso ideale pauperistico non avrà grandi chances nella competizione democratica», scriveva Langer. E «ogni volta che si è sperimentato lo Stato etico (...) il bilancio della privazione di libertà si è rivelato disastroso». Langer si suicidò nel 1995. A sventolare la bandiera verde restano le Thunberg, i Timmermans e quelli che vendono servizi di greenwashing alle multinazionali. «E quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà».

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