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Yves Mény scuote la politica: "I giudici metteranno in crisi i Parlamenti"

Il politologo francese spiega come "indisciplina dei partiti e divario fra cittadini ed eletti abbia causato il ricorso alla legislazione di emergenza"
di Giovanni Longoni lunedì 9 giugno 2025

5' di lettura

Da almeno un decennio assistiamo nei paesi democratici all’uso sempre più esteso di provvedimenti legislativi che evitano il passaggio della discussione e voto in parlamento. Negli Stati Uniti la pratica del ruling by decresce è stata particolarmente utilizzata da Barack Obama soprattutto in una situazione di debolezza relativa (era un’«anatra zoppa», cioè un presidente con un Congresso controllato dall’opposizione). La pratica non ha fatto altro che espandersi e attualmente sembra la regola del Trump II. Senza contare il fatto che la presidenza Usa è o dovrebbe essere la quintessenza dell’esecutivo forte in democrazia. In Francia il ricorso all’art 49.3 della costituzione si moltiplica. Però è una situazione che si spiega con l’estrema debolezza dei governi. In Italia: in principio era il COVID. Ma poi i governi ci hanno preso gusto. Abbiamo trovato la panacea alla proverbiale debolezza degli esecutivi della Penisola? Da ultimo anche l’Unione europea ha sperimentato lo scontro sull’abuso della legislazione emergenziale con le polemiche sul ricorso di Ursula Von Der Leyen all'art 122 dei trattati. In questo contesto, il ruolo dei giudici diventa sempre più centrale. Dalla rivoluzione giudiziaria di Mani pulite nel mondo non si contano i casi di giudici che intervengono direttamente o indirettamente in politica: Brasile, Libano, Stati Uniti e le Corti internazionali dell’Aia. A lungo autori come Parag Khanna, politici come la buonanima di Lee Kwan Yew o anche semplici miliardari-guru-scrittori tipo Nicolas Berggruen hanno insistito perché le democrazia liberali imparassero qualcosa dai loro avversari non democratici. È questo il risultato? O è colpa di Carl Schmitt? Abbiamo chiesto a Yves Mény, tra i maggiori politologi attuali (di lui ricordiamo i recenti “Le vie della Democrazia” e “Sulla legittimità”, Il Mulino, 2025) un aiuto a districarci in quella che sembra una crisi maggiore del sistema rappresentativo.

Il ricorso sempre più massiccio alla legislazione di emergenza ha una data di nascita?
«Non c’è una data di nascita comune a tutti i Paesi. Dipende della situazione politica di ognuno, della forza o debolezza dei partiti in Parlamento, delle possibilità che danno o no le costituzioni di ricorrere alle soluzioni d’urgenza. Era già il caso nella Francia degli anni ’50, in Italia dagli anni ’90 in poi. È meno abituale in Paesi come la Gran-Bretagna o in Germania».

Quali sono i motivi?
 «Ci sono ragioni politiche: la frammentazione e l’indisciplina dei partiti; la crescita delle coalizioni; il divario fra opinione pubblica e la rappresentanza parlamentare. E poi ragioni tecniche: la necessità di adottare misure d’emergenza quando invece i parlamenti sono lenti. O quando ci sono troppi veti dai parlamentari o dai gruppi di pressione».

Vedremo cambiare il modo di governare le democrazie?
«Il declino dei parlamenti nella fabbricazione della legge è quasi secolare ma c’è un’accelerazione recente destinata a durare. Vediamo già dappertutto che gli esecutivi diventano sempre più forti e influenti. La legge è votata dal Parlamento ma, sempre di più, la legge è il prodotto delle burocrazie».

I parlamenti diventeranno obsoleti? È quello che sostenevano Casaleggio e Grillo, che preconizzavano l’avvento di un sistema senza intermediazione fra popolo e governo?
«Direi di no ma i parlamenti devono inventarsi un altro modo di funzionare (inchieste, questioni al governo, valutazione delle politiche pubbliche e legittimazione dei testi preparati del governo). Le alternative alla Grillo non lo sono in realtà per ragioni tecniche (complessità delle materie) e politiche (la gente si stufa di votare anche in sistemi che hanno una lunga tradizione di democrazia diretta. Non siamo più nell’Atene del V secolo a.c.)».

L’Unione europea è stata vista a lungo come un oggetto caduto dalla Luna: un super esecutivo-legislativo e un parlamento in cui appunto si parla e basta. Ora invece sembra che questo sistema si allarghi anche agli stati nazionali?
«Non è l’UE che influenza il livello nazionale ma piuttosto il contrario. Ma anche in modo particolare: il Parlamento europeo è l’unica assemblea nel mondo che non ha - per principio - il diritto di presentare disegni di legge. Anche se ci sono modi di spingere la Commissione a presentare progetti ispirati dalle richieste del Parlamento. Ma anche a Bruxelles i tempi sono cosi lunghi (quasi 3 anni mediatamente per adottare un testo legislativo!) che anche lì si trovano modi per sbrigare le procedure. Più il processo è democratico, più le procedure sono complesse e i tempi lunghissimi. È il prezzo da pagare e in alcuni casi diventa insopportabile. Da lì la tentazione di by-passare le procedure normali».

Il ruolo politico dei giudici cresce per compensare l’assenza dei parlamenti. Che rischi comporta tutto ciò?
«Il controllo dei giudici è utile e necessario. Ma di nuovo, la complessità delle procedure rende più facile il ricorso giudiziario e allungano i tempi. Più si cerca di stabilire protezioni procedurali e di sostanza e più il ricorso al giudice diventa un calvario senza fine che crea rabbia e frustrazione. C’è il pericolo del “Governo dei giudici” come succede in Italia e sempre di più in Francia. Nei nostri Paesi si fanno delle legge contorte troppo dettagliate e complesse che moltiplicano le opportunità di controlli giudiziari e rallentano o impediscono l’azione pubblica in particolare laddove gli obiettivi sono raddoppiati di motivi morali (lotta contro la corruzione per esempio). I paesi anglo-sassoni sono più pragmatici e scrivono delle leggi più generali lasciando al giudice la cura di controllare i modi di attuazione. Anche se, negli Stati Uniti, c’è una quantità enorme di leggi ad hominem o quasi che rendono la situazione molto complicata».

La democrazia ha una forte plasticità ed esecutivi sempre più forti resteranno nell’ambito della democrazia oppure si rischia di uscirne?
«Siamo oggi in una situazione molto fluida dove la separazione fra democrazia, oligarchia, autocrazia non è cosi netta. Più che una frontiera, una rottura, c’è una sorta di continuum, sia perché le democrazie sono imperfette sia perché i regimi autoritari cercano di mantenere un’apparenza democratica (elezioni, parlamento). L’America non è ancora un regime autoritario ma non è più cosi democratico come prima perché Trump prende decisioni senza preoccuparsi dei checks and balances della costituzione americana. Si comporta come se la maggioranza che ha ottenuto gli permette di fare tutto quello che gli pare senza preoccuparsi delle minoranze».

La separazione dei poteri che conosciamo pensata da Montesquieu ha i giorni contati?
«Nei fatti, la separazione dei poteri alla Montesquieu non è realizzata in nessun regime. Ogni sistema ha fatto dei bricolages variabili: per esempio, il Vice-Presidente degli Stati Uniti è anche Presidente del Senato. Il Presidente nomina i giudici federali eccetera. Stessa cosa in Francia dove l’esecutivo può disporre del potere legislativo se il parlamento delega le sue proprie competenze o in caso di emergenza (état d’urgence, art.16) eccetera. In Italia, il Presidente della Repubblica nomina 5 senatori a vita. In un certo senso, meglio qualche sovrapposizione dei poteri che dei sistemi di separazione totale. In Francia abbiamo conosciuto due costituzioni con una separazione dei poteri molto forte nel 1791 e nel 1848; Nel primo caso il confronto si è concluso con Luigi XVI alla ghigliottina e nel secondo caso con il colpo di Stato di Luigi Napoleone il 2 dicembre 1851». 

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