Mercoledì 23 luglio 2025: segnatevela sul calendario, la data di ieri, perché è il giorno di una conversione intellettuale spettacolare (benché parzialmente già ritrattata, ma ci arriveremo). Il prologo del dramma (o della commedia, il giudizio sovrano è del lettore) sta in un’annotazione reperibile nell’Amaca di Michele Serra pubblicata il giorno prima su Repubblica. “Contare sulla magistratura per cambiare le classi dirigenti significa, sostanzialmente, rinunciare a fare politica”.
Proprio lui, Serra Michele, prima firma del giornale-partito che per anni ha “contato” anche sulla “magistratura” per farla finita con Craxi (caricaturizzato in tangentaro compulsivo), Berlusconi (paradossalmente “idealizzato” in un gangster del livello di Al Capone), Salvini (grottescamente raccontato come un incallito sequestratore di persone), Meloni (la ragion di Stato ridotta a notitia criminis, vedi caso Almasri) e qualunque leader o progetto politico deviasse dal verbo della Ditta (scalfariana, quella piddina è diventata ben presto un’appendice).
Per quanto tutto interno alla bolla degli addetti ai livori radical, l’evento è clamorosamente controintuitivo (oltre che lievemente sospetto per tempistiche, avvenendo in parallelo alla tempesta giudiziaria su totem progressisti come Beppe Sala e Matteo Ricci) e ha scatenato l’interesse del direttore del Foglio Claudio Cerasa. Il quale ha telefonato a Serra e riportato la conversazione sul Foglio di ieri: voilà l’autocritica squadernata, il documento integrale della conversione, qui ci destiamo dall’Amaca e piombiamo in qualcosa come la Notte dell’Innomato, un rivolgimento della coscienza che approda alla sconfessione di sé. “Lo schiacciamento di punti di vista tra le procure e molti giornali è una forma di parassitismo.
Dei secondi, ovviamente”. E tu ti aspetti che alleghi la lettera di dimissioni da Rep., il quotidiano che pubblicò l’intera saga delle intercettazioni tra le cosiddette (da loro) “Olgettine”, lenzuolate di chiacchiericcio penalmente irrilevante tra donne adulte, “parassitando” (Serra, o meglio il nuovo Serra, dixit) l’attività della Procura di Milano. “Io vedo un gigantesco problema di linguaggio”, dice questo Serra intriso di galateo garantista, che continua a scrivere su un giornale che chiamava Berlusconi l’Egoarca. “Di certi titoli non vale nemmeno la pena parlare, per quanto sono urlati, o ammiccanti, o calunniosi”. Due esempi che ci sono venuti in mente, tra passato remoto e recente: “Vergogna, assolto Craxi” e “Cancellare Salvini” (sì, entrambe prime pagine di Repubblica).
Ancora, la confessione è un climax ascendente, il moto della coscienza è inesorabile: “Pubblicare certe intercettazioni di nessun interesse giudiziario non è obbligatorio. Dalle carte si estragga ciò che serve a capire perché una o più persone sono sotto accusa. Il resto è gossip, dileggio e sputtanamento”. Ma soprattutto il resto è noia, caro Serra, se non si accompagna il sermoncino liberale (benvenuto, lievissimamente fuori tempo massimo) con le tautologiche ricadute biografiche e professionali: sbagliammo, fu “gossip e sputtanamento” scrutare “dal buco della serratura” (come scriveva Giuliano Ferrara) quel che avveniva in libere feste tra liberi adulti consenzienti in una libera proprietà privata (Arcore, nella fattispecie) e spacciarlo per giornalismo investigativo. Serra deve essersi accorto di averla fatta grossa, di aver infranto i dogmi della Casa e di una vita: infatti, appena appeso con Cerasa, si è precipitato a scrivere un’Amaca contro la riforma della giustizia. Dove, forse per ritrovare le certezze basilari, riesuma lo spettro di Berlusconi, che voleva “manomettere il sistema-giustizia” perché “i prepotenti non tollerano giudizio”. Ecco, diciamo che l’Innominato mostrò una tenuta psicologica maggiore.