Giorgio Armani se n’è andato proprio come avrebbe voluto lui, immerso nel suo lavoro, mentre definiva gli ultimi dettagli della prossima sfilata in programma all’Accademia di Brera il prossimo 28 settembre, con cui avrebbe celebrato i 50 annidi carriera. “Gorgeous Giorgio” (come lo definì Time in un’ormai leggendaria copertina del 1982) del Made in Italy, il Maestro, colui che dal 1975 ha rivoluzionato le regole della moda con la giacca destrutturata, il tailleur maschile al femminile, il colore “greige” (una tinta neutra a metà tra il grigio e il beige, ispirata alle sabbie del Trebbia), la contaminazione orientale declinata in chiave minimalista, il jeans prêt-à-porter, non ha solo vestito il corpo, lo ha liberato. L’opera di Armani è unica. Nessuno come lui ha studiato e compreso il proprio tempo, trasformandolo in abiti da vivere, più che da esibire. Re Giorgio ha creato un’idea di eleganza per la vita reale, scegliendo sempre la concretezza sulla spettacolarizzazione, il buon gusto sulla provocazione. Ha scardinato l’idea radicata della classica mise nera, che ci salvava quando non sapevamo cosa indossare, con il più chic completo blu notte, simbolo di sofisticato charme.
Ci eravamo illusi che fosse immortale il re dello stile senza tempo e dalla seduzione sussurrata che ha avuto il coraggio di criticare i gay: «Non vestitevi da omosessuali.
L’uomo sia uomo». La sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile per chi ama la moda, per noi che lo abbiamo seguito e apprezzato, che abbiamo avuto la fortuna di vedere le sue sfilate dal vivo, di toccare le sue meravigliose creazioni e ascoltare le sue scelte stilistiche a fine passerella. Ci manca. E adesso non è per niente facile sintetizzare e spiegare ciò che è stato, ciò che ha rappresentato in poche righe. Certo è che lo stilista di Piacenza ma con Milano nel cuore («è una città un po’ scontrosa, con una personalità asciutta ma ottimista che sento molto mia») ha disegnato e realizzato degli autentici capolavori, opere d’arte, spinto da un’incredibile passione per il suo lavoro che era a suo dire «l’antidoto perfetto all’infelicità».
LO SGUARDO DI GHIACCIO
Destino bizzarro, da aspirante medico Armani si è ritrovato a fare il vetrinista alla Rinascente, dove ha mosso i primi passi nel mondo della moda realizzando esposizioni che si facevano notare, tanto che Nino Cerruti passando di lì si accorse che quegli allestimenti su corso Vittorio Emanuele non erano niente male. Anzi. Lo assunse (era il 1965) e affidò a lui la sua collezione. Era solo l’inizio per questo uomo dal sorriso affascinante e lo sguardo di ghiaccio. L’anno prima aveva conosciuto Sergio Galeotti, un giovane parecchio intraprendente. La coppia era fatta: il manager e il creativo, dieci anni dopo nacque la Giorgio Armani, con sede in corso Venezia, a Milano (nel 1975). E fu lui stesso a inventare il termine «stilista» (copyright accertato). «Io non sono né un couturier né un sarto ma mi sento uno che crea uno stile, uno stilista», disse. E così fu.
Re Giorgio si concentrò fin da subito sulla leggerezza degli abiti sartoriali attraverso un lavoro di sottrazione: li svuotò, tolse la fodera e le spalline alle giacche e rese fluidi i pantaloni degli uomini. E fece lo stesso con le donne che vestì con capi morbidi, avvolgenti e soprattutto comodi senza perdere la silhouette. Il tailleur femminile in seta e cashmere divenne una seconda pelle. Un lavoro di emancipazione per uomini alla ricerca di paludamenti meno rigidi e punitivi, e per donne desiderose di un’”uniforme” per sentirsi più sicure in un mondo prettamente maschilista. Ma forse non tutti sanno che il primo blazer destrutturato lo stilista lo realizzò per sé, scoraggiato dagli abiti tradizionali: «Anche quelli fatti su misura mi facevano sentire vecchio anzitempo». «La libertàripeteva- è scegliere ciò che fa sentire a proprio agio, senza inseguire ciecamente le tendenze». E dunque, «pensai che la giacca potesse rivelare la persona molto di più della trasparenza, sottolineando il fisico, ma anche un po’ il pensiero. Non c’è alcun bisogno di spogliarsi per rivelarsi: basta un blazer morbido, destrutturato, che cada con naturalezza appoggiandosi sulle spalle non costrette, liberate dai rinforzi, eppure perfetto. Cosa c’è di più sexy di una giacca “a pelle”, che si appoggia senza ostacoli sul corpo e ne trasmette la sensualità?», ricordava spesso Armani.
Poi il trampolino di lancio internazionale: il regista di Hollywood, Paul Schrader, lo contattò per disegnare gli abiti del suo “American gigolò”. Era il 1980. Nel film Richard Gere nei panni di un businessman del piacere, Julian Kaye, indossa completi Armani che non sono semplici abiti, ma una dichiarazione di stile: spalle morbide, palette neutre, tessuti fluidi che rivelano ed esaltano il corpo. Il guardaroba del protagonista definisce la trama. La sequenza del noir in cui Kaye a torso nudo apre l’armadio e sceglie giacche e camicie e sul letto fa gli abbinamenti con le cravatte è rimasta iconica, consacrando il debutto nel mondo del look Armani, solo cinque anni dopo la fondazione del brand.
L’ARRIVO DI “EMPORIO” Non ha mai sbagliato una sfilata. Una collezione dietro l’altra di successi. Nel 1981 alla prima linea ha affiancato Emporio Armani, quella dedicata ai giovani: i jeans, le felpe e gli accessori con il logo dell’aquilotto diventano subito uno degli status symbol della nuova generazione. Nel 2005 il debutto a Parigi con la haute couture: «Un’emozione infinita», mala sua Armani Privé affascina e conquista le star sul red carpet. Cate Blanchett, Julia Roberts, Nicole Kidman ed Anne Hatahway sono solo alcuni dei volti simbolo di un’estetica votata alla bellezza più pura e semplice, glamour senza mai risultare eccessiva, classica ma non banale: silhouette delicate, animate da ricami floreali, perline, cristalli e strascichi. Senza dimenticare i suoi smoking spesso sui tappeti rossi o disegnati per gli attori del grande schermo: da Tom Cruise in Mission Impossible a Leonardo DiCaprio in Walf of Wall Street. Giorgio Armani dal temperamento preciso, rigoroso e determinato ha sempre fatto dell’indipendenza, di pensiero e azione, il proprio segno distintivo: «L’80 per cento di ciò che faccio è disciplina, il resto è creatività». Sempre fedele al suo credo fino alla fine. Come quando, nel 2020 s’è scagliato contro gli stilisti che, cercando di forzare le donne a vestirsi secondo le tendenze senza badare a cosa sia giusto per loro, «stuprano» le loro clienti. Quando lo disse, venne giù il mondo. La sua è sempre stata una moda elegante e mai volgare o ridicola, due termini che detestava. «Lo stile- diceva, - è eleganza, non stravaganza. L’importante è non farsi notare, ma ricordare». Forse, ora potrà riabbracciare il suo compagno Sergio, scomparso nel 1985. Anche se a dire il vero Armani credeva poco nell’aldilà, ripeteva: «Finisce tutto qua».