Il temerario rosso ha perso la causa. Paolo Berizzi, giornalista di Repubblica, mi aveva querelato e ieri c’è stata - dopo anni - l’udienza per decidere. Una querela temeraria, si direbbe oggi, al punto che persino il pubblico ministero ha chiesto la mia assoluzione perché il fatto non sussiste, quasi dicendo «ci state facendo perdere tempo» – grosso modo si intuiva così – non essendoci stata, in realtà, alcuna diffamazione. E il giudice Francesco Salerno il pollice verso lo ha fatto a Berizzi. Il cronista tagliatore di teste ha semplicemente sbagliato bersaglio. Anche perché non può ritenere di poter colpire alla cieca senza che nessuno gli risponda a tono, come invece feci io dal quotidiano che dirigevo, il Secolo d’Italia.
E l’ha presa pure malissimo, con uno dei suoi soliti tweet in cui nella sostanza ha inveito a male parole proprio contro la magistratura: quel fotomontaggio sul Secolo d’Italia in cui, con satira evidente, lo ritraevamo con la faccia incerottata come le Br trattarono Aldo Moro con alle spalle la bandiera brigatista, gli sembrò una specie di oltraggio, un vilipendio, chissà cosa. E ha commentato così la sentenza: «Una buonissima notizia per i manganellatori della rete». Capito? Lui mi querela, giornalista contro giornalista, si fa spalleggiare in tribunale dalla federazione della stampa addirittura col suo presidente Di Trapani, perde il processo, e straparla di manganellatori della rete...
Dopo il recente attentato a Sigfrido Ranucci si è parlato molto di libertà di stampa, di bavaglio, di censura: e quella di Berizzi nei miei confronti che cos’è stata? Ranucci chiede una legge contro le querele temerarie: se fosse già in vigore, oggi Berizzi sarebbe più povero e dovrebbe indebitarsi dopo avermi chiesto un risarcimento di 50mila euro da devolvere a chissà quali associazioni antifasciste (posso dire non in mio nome?).
Ovviamente, Berizzi è uscito livido dal tribunale, convinto com’era di avere la giustizia al suo fianco. Dovevate vederlo in mattinata, quando siamo capitati nello stesso bar prima dell’udienza, io con il mio bravissimo legale, l’avvocato Riccardo Andriani (un piacere ascoltarne l’arringa difensiva). Il caffè gli è andato di traverso, al temerario rosso. Pretendeva la morte del diritto di critica, proprio come ha detto Andriani in aula. Idem per il diritto di satira, ha aggiunto.
Berizzi stava proprio col presidente del sindacato dei giornalisti, Di Trapani, che di nome fa Vittorio ma nella pratica lo chiameremo Sconfitto. Desolante la sua presenza al processo. Speravano di festeggiare, ma i giornalisti non stanno solo a sinistra. Noi non abbiamo bisogno di festeggiare, invece, perché la serenità non l’abbiamo mai persa in questa enorme perdita di tempo pretesa da Paolo Berizzi. Che ha preferito scandire a suon di tweet – e articoli su Repubblica, online o cartaceo – ogni fase della sua preziosa causa. Ora lo dica al suo direttore di non prendere per oro colato quello che dice sui “nemici” politici, anche se fanno lo stesso mestiere. Un po’ meglio, magari.