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Giovanni Maria Flick: "Le riforme della Giustizia sono servite a poco"

di Francesco Specchia martedì 31 gennaio 2023

Giovanni Maria Flick

5' di lettura

«Mi pare che qui si vogliano fare le riforme della Giustizia, con l’affanno, al passo del bersagliere; ora, non dico di farle al passo lento degli alpini, ma almeno una via di mezzo...». In questi giorni Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, magistrato, docente, già Guardasigilli vibra d’un eclettismo alla Calamandrei. Dopo l’uscita del libro L’algoritmo d’oro e la torre di Babele. Il mito dell’informatica (Baldini +Castoldi, scritto con la figlia Caterina) Flick si ritrova ad affrontare e commentare l’ennesima riforma della Giustizia, in modalità Generale La Marmora. Alla bersagliera (come questa intervista).

Caro presidente Flick, Carlo Nordio ha annunciato la rivoluzione della Giustizia, la Meloni ha smorzato i toni. Lei invita alla prudenza. Ma su alcuni temi non la pensava come il ministro?
«Io non la penso né come il ministro Nordio che apprezzo per diversi aspetti, né come nessun altro. Io faccio un’analisi tecnica. Semmai sono gli altri che mi sembra raramente condividano il mio pensiero. Già al tempo del governo Prodi avevo proposto una revisione della disciplina delle intercettazioni che pur non giungendo al traguardo, fece un lungo tratto di strada fino all’approvazione da parte della Camera nel 1999, a governo Prodi già caduto e in un testo stravolto rispetto alla proposta iniziale. Poi (per fortuna, visto il peggioramento dei contenuti) si incagliò di nuovo al Senato e nel 2001 decadde con la legislatura».

Proprio alle intercettazioni mi riferivo. Sono un suo vecchio cavallo di battaglia, e una fissa per Nordio, e una causa di strali feroci per l’opposizione. Lei come riformerebbe la disciplina?
«Sulle intercettazioni dev’essere ben chiara la condizione per cui viene ordinata l’intercettazione stessa – sia essa fatta coi trojan che con i mezzi classici. Di quali reati parliamo? Quali sono i “reati gravi”? La scelta preliminare dei casi in generale spetta, inevitabilmente, al solo legislatore. L’intercettazione non deve essere una pesca a strascico: non si può allargare ad indagini diverse, a processi diversi da quelli per i quali è stata autorizzata; roba del tipo “intanto ti metto sotto controllo il telefono e poi vedo se hai commesso o stai commettendo qualche reato...”».

Diciamo che la politica non s’è applicata, e c’è stato un vuoto di potere occupato dalla magistratura. Almeno fino alle legge Orlando che avrebbe dovuto limitare l’abuso delle intercettazioni. O no?
«Sì, qui c’è stato un vuoto: la politica non ha deciso e si è adagiata sull’interpretazione giurisprudenziale, sulla supplenza della magistratura. E la riforma delle intercettazioni del ministro Orlando (che dava forse troppo spazio alla polizia giudiziaria) non è mai davvero entrata in funzione, perché quando doveva farlo è subentrata la riforma Bonafede che ha esteso la tipologia dei reati sottoponibili ad intercettazione. Beninteso, io non entro nel merito tecnico, ma da cittadino mi piacerebbe che la legge fosse chiara in tutti gli aspetti della disciplina».
 

Le dò la notizia che Nordio la pensa più o meno come lei anche sull’ergastolo ostativo (stop all’automatismo). La Meloni meno.
«Ci sono tre diversi problemi, e piuttosto seri, nel decreto su ergastolo ostativo e processo penale appena varato dal governo. È strano che una norma subordini la concessione di un beneficio alla capacità del detenuto di fornire prove su eventi futuri, per quanto si tratti di un ambito delicatissimo qual è il contrasto alla criminalità organizzata. Utilizzare il carcere più duro per indurre a parlare non va bene. E in alcune parti, le norme sull’ergastolo ostativo potrebbero essere di nuovo impugnate, da un giudice, davanti alla Consulta per sospetta incostituzionalità».

Idem sull’affollamento nelle carceri. In Italia è del 107,7%, con 54.841 detenuti presenti a fronte di una G. Maria Flic capienza regolamentare di 50.900 posti. Non lo trova abbastanza inumano?
«La reclusione si deve applicare nel rispetto degli spazi compatibili con essa: i cosiddetti “residui di libertà” contemplati dalla Costituzione. Da qui la crisi dell’affollamento delle carceri italiane che non è stata sufficientemente affrontata, al punto che sul tema è intervenuta anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo».

Al Csm hanno eletto Fabio Pinelli: la prima volta di un uomo in quota Lega che dice di ispirarsi al giudice Livatino, contro tutti gli aruspici. Al di là degli entusiasmi di parte, le sembra che da quelle parti spiri una brezza di novità?
«L’elezione dell’ultimo Csm attesta la necessità assoluta di trasparenza che è stata richiesta dalla riforma Cartabia. Qui, invece prima ci si apre a tutti i candidati col loro bel curriculum, ma poi lo spazio viene occupato dalle candidature dei membri da parte dei partiti. E poi, prenda le “porte girevoli”: va bene il divieto del passaggio dalla magistratura alla politica, ma deve valere anche l’inverso: dalla politica alla magistratura, per quanto riguarda l’elezione dei membri laici i cui requisiti sono esplicitamente indicati dalla Costituzione e non sembrano invece espressione di rappresentatività politica».

Ma non si diceva che era stato scardinato il “sistema” di Palamara?
«Non parlerei di scardinamento, come dice lei, del “sistema Palamara”. Guardi, fosse per me il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dovrebbe essere nominato dal Presidente, ci eviteremmo molti problemi».

Crede nella riforma del processo penale, iniziata dalla Cartabia?
«La riforma incide per molti aspetti sul tessuto ormai logoro del codice Vassalli. C’è di positivo che è frutto del confronto fra magistrati e avvocati. Alcune soluzioni mi lasciano però perplesso. Penso ad esempio alla disciplina della prescrizione. È complicata, mette insieme due realtà diverse: la cancellazione del reato per decorso del tempo (sostanziale) e la morte del processo per improcedibilità (processuale)».

Tra i grandi moloch della Giustizia c’è la separazione delle carriere dei magistrati. Lei da ex toga come la vede?
«La separazione ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Tra l’altro si pone il problema, una volta separate le carriere, di dove mettere il Pm. Che cosa fa il Pm, l’avvocato dell’accusa? Diventa una realtà autonoma? Sono materie la cui discussione richiede calma e pacatezza e, soprattutto una revisione costituzionale. Anche e soprattutto lontana dalla fretta che appare imposta dal Pnrr».

Altro punto dolente: l’obbligatorietà dell’azione penale. Ha davvero bisogno di un riordino per rintuzzare certi pm colti da frisson d’onnipotenza?
«Altro nodo gordiano, l’obbligatorietà: è considerata emblema di eguaglianza, ma di fatto non c’è. Due le soluzioni: osi mantiene così (con scelte a volte troppo discrezionali), o il legislatore deve imporre i parametri precisi per applicarla. Ora l’obbligatorietà è solo citata genericamente in Costituzione. Probabilmente il problema è sorto da quando da un lato, è stato eliminato il ricorso periodico all’amnistia; dall’altro è cresciuto il ricorso alla “pan-penalizzazione”».

Professor Flick, sia sincero: la Giustizia sarà davvero riformata o ci troveremo a riparlarne, in un loop straniante e pieno di rimpianti, alla prossima intervista?
«Secondo me prima di fare altre riforme, servirebbe verificare come funzioneranno quelle introdotte dall’ultima riforma. Ci sono molte cose che non vanno: la Cassazione oberata di lavoro, l’enorme mole dei processi pendenti, le difficoltà pratiche di applicazione e molto altro. Ma ho l’impressione che il clima tra politica e giustizia – che prima s’era rasserenato - stia tornando ad essere infiammabile. Speriamo che torni il sereno...».

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