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Michele Padovano, lo sfogo: "17 anni di gogna, ho perso tutto"

di Claudia Osmetti venerdì 3 febbraio 2023

4' di lettura

«Ho vissuto momenti molto duri e devo ringraziare, prima di tutto, la mia famiglia. Mia moglie e mio figlio che mi sono sempre stati vicini. Ero, sono innocente». I capelli ricci ci sono ancora, sono solo un po’ meno scuri e un po’ più brizzolati. Ha il pizzetto, la voce pacata, non perde mai la pazienza. Michele Padovano è (finalmente) un uomo felice. Sollevato. Dopo un calvario giudiziario durato diciassette anni, dopo un’accusa per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, dopo un processo, un processo-bis, dopo che lo hanno trattato manco fosse Pablo Escobar, dopo tutto questo è arrivata, due giorni fa, la sentenza d’appello: l’ultima.

C’entra niente, lui. Era stato coinvolto ingiustamente, correva l’anno 2006, in un’inchiesta della procura di Torino su un giro di spaccio di hashish. Padovani: volto, anzi, gambe, del calcio di vent’anni fa, la maglia della Juventus, quella del Napoli, quella del Genoa. Pure quella della nazionale, a fine anni Novanta. Sempre lì, sempre in attacco. Chi l’avrebbe detto che avrebbe passato, poi, il resto della vita a difendersi per aver prestato qualche migliaia di euro a un amico d’infanzia che doveva acquistare dei cavalli (affare documentato)? Il pm che in primo grado chide 24 anni di carcere, una mazzata. L’appello che gli dà sei anni e otto mesi, la Cassazione che annulla con rinvio la decisione e l’epilogo, di poco fa: gli avvocati Giacomo Francini e Michele Galasso che spuntano l’assoluzione. «Guardi», continua Padovano, «io davvero faccio fatica a trasferirle a parole l’emozione che sto provando. Quando hanno letto la sentenza sono scoppiato a piangere. Siamo, scoppiati a piangere. Sia io che mia moglie Adriana che mio figlio Denis».

E poi?
«Mi sono ripreso, ma siamo andati avanti almeno un paio d’ore. È stato un atto liberatorio per la tensione accumulata, abbiamo passato momenti molto duri. Non nascondo che ci sono stati anche attimi di scoramento».

Ha pensato di mollare?
«Alla fine prevaleva la consapevolezza della mia innocenza e mi dicevo che dovevo andare avanti per la mia famiglia. Dovevo trovare la forza per loro, l’avevo trovata quando ero in carcere e...».

Scusi, la interrompo. Quanto è stato in carcere?
«Tre mesi. Prima a Cuneo, poi a Bergamo. Poi ci sono stati i domiciliari. Sono stati duri anche quelli, non creda: ho affrontato quattro processi. Lunghi, dolorosi. Però quando ho cambiato gli avvocati ho capito che s’era mosso qualcosa».

Cioè?
«La mia situazione era quasi compromessa, Francini e Galasso sono stati bravissimi a ribaltarla. Devo molto a loro».

Senta, ma come lo ha vissuto tutto questo tempo? Voglio dire, la sua carriera era lanciata: aveva la strada spianata verso la dirigenza sportiva. Com’è stato?
«Io non ho mai guardato quello che potessero pensare gli altri, non è il mio carattere. Però la percezione era che con chi mi confrontassi cambiasse poco, c’era sempre quel pregiudizio che mi puntava addosso e... Posso farle una confidenza?».

Certo.
«Non era tanto a me che dava fastidio. Se fosse finito nei miei confronti, amen. Era quando ricadeva su mia moglie e mio figlio. Nella vita non bisogna puntare il dito contro nessuno, questo l’ho imparato. All’epoca dell’arresto avevo già smesso di giocare, però sì: avevo una carriera spianata che era in rampo di lancio. Purtroppo questi fatti mi hanno tarpato le ali e ho fatto molta fatica, nonostante ci abbia provato eccome».

A fare cosa?
«A rientrare nel mondo del calcio. È stato tutta la mia vita e io questo so fare. Però mi rendevo conto che c’era sempre questa spada di Damocle che mi pendeva sulla testa e non si poteva togliere. Diciamo che mi sono dovuto reinventare».

Come?
«All’epoca avevo una posizione di “privilegio”, anche perché potevo vantare delle proprietà immobiliari e il discorso economico non mi spaventava: ma tutto finisce nella vita».

Oddio, mai avrei pensato di fare questa domanda a un calciatore della Serie A: come l’ha sbarcato il lunario?
«Ho aperto un bar, ho investito in un cantiere navale, in un parco-giochi. Ho avuto scarsi successi? Forse, però almeno non sono stato a casa con le mani in mano».

Be’ questo fa la differenza. C’è qualcuno dei suoi vecchi compagni di squadra che le è stato vicino in questi diciassette anni?
«Pochini, però voglio essere chiaro: è solo un dato di fatto, non una critica».

D’accordo. Pochini quanti?
«Pochini due. Il primo è Gianluca Vialli, il secondo è Gianluca Presicci. Due amici, anzitutto».

Già, Vialli. E dire che avevano provato a tirarlo in ballo, com’era andata?
«Era solo un titolo di giornale che ipotizzava una cessione di cocaina a Vialli... Facciamo così, lasciamolo riposare in pace. Erano tutte falsità, dagli atti è saltato fuori che non c’entrava nulla. Però in quel momento faceva comodo ampliare le cose».

Da come ne parla si capisce che eravate molto legati. È così?
«È stato l’unico, assieme a Presicci, che mi è stato vicino. Quando io ero in carcere telefonava a mia moglie per sapere come stavo. Questo io non l’ho mai dimenticato, siamo sempre stati in ottimi rapporti. C’erano molte affinità caratteriale, la sua mancanza oggi pesa molto».

L’amicizia centra parecchio nella sua vicenda: eppure lei non l’ha rinnegata, neanche quando le ha portato i guai di cui stiamo parlando da qualche riga...
«Non l’ho mai fatto e non lo farò adesso. Le persone che sono cresciute con me hanno preso strade diverse, tutto qui».

Adesso cosa farà?
«Mi piacerebbe che qualcuno mi desse l’opportunità di rientrare nel mondo del calcio dalla porta principale visto che mi è stata tolta in maniera così violenta».

Qualche suggerimento?
«Ho un mezzo discorso con una società che si occupa di agenzie e procuratori di giocatori: vediamo se ne esce qualcosa. Però per il momento la priorità è un altra».

Quale?
«Godermi questo attimo assieme alla mia famiglia, per il resto ci sarà tempo. Qualche cosa succederà. Nonostante tutto io ho sempre avuto fiducia nel ruolo dei giudici, quando credevo nella giustizia avevo ragione».

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