La filosofia è in età moderna una disciplina essenzialmente mondana, non può non cioè non occuparsi delle cose di questo mondo cercando di dare ad esse un senso generale. Hegel diceva che essa è «il proprio tempo appreso col pensiero», mentre Marx e Gentile, da opposti punti di vista, erano addirittura convinti che il pensiero, facendosi vita, è immediatamente politico. Può destare perciò un certo stupore che, di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, i filosofi italiani, in grande maggioranza simpatizzanti della sinistra, abbiano per lo più taciuto e che solo ora comincino a prendere posizione. Tutto il contrario di quel che avvenne con la Guerra del Golfo, fra il 1990 e il 1991, quando si sviluppò in Italia un vasto dibattito sulla necessità della guerra che vide protagonista Norberto Bobbio. Allora ci si richiamò soprattutto alla categoria agostiniana (ma anche tomista) della “guerra giusta”, che certo si applicherebbe a meraviglia anche all’odierno conflitto: una classica guerra di aggressione ad uno Stato sovrano da parte di un altro più forte (almeno sulla carta).
Se però i filosofi italiani per lo più tacciono, non così si può dire per i loro colleghi sparsi nel mondo. Chi prese subito posizione netta fu, ad esempio, già nella primavera scorsa, Noam Chomsky, filosofo e linguista spesso considerato vicino al cosiddetto “pensiero radicale”, cioè di estrema sinistra. Chomsky, in un libretto pubblicato anche in Italia (“Perché l’Ucraina”, Ponte alle Grazie), ha definito l’invasione russa un «grave crimine di guerra» per cui «non ci sono giustificazioni o attenuanti». Per quanto sia giusto che ci si ponga domande sulle cause ultime del conflitto, nonché sugli errori compiuti non da una sola parte in passato, nel momento in cui, con una modalità tipicamente imperialistica, Putin ha deciso di risolvere con le armi la questione ucraina, la Federazione Russa si è posta per Chomsky automaticamente sul terreno del torto.
Se inaspettata è la presa di posizione contro i russi di un critico dell’Occidente come Chomsky altrettanto lo è per opposti motivi quella di qualche giorno fa di Jurgen Habermas. Dal teorico del “patriottismo costituzionale”, che ha ormai 93 anni, da sempre vicino alle posizioni dell’estblishment democratico americano, non ci si aspettava un articolo così pieno di distinguo e cavilli come quello scritto per la Suddeutsche Zeitung e ripreso dalla stampa di tutto il mondo. In “Guerra e indignazione” – questo il titolo - Habermas, pur condannando la Russia per il vile attacco all’Ucraina, contesta in sostanza l’ulteriore aiuto in armi che l’Occidente sta dando a Kiev ed elogia la cauta prudenza del cancelliere tedesco Scholz al riguardo. A suo dire, infatti, l’Occidente ha la responsabilità di «vincere la pace», evitando che le proprie azioni mettano in moto, seppur involontariamente, meccanismi perversi che possono portare a superare quella “linea rossa” che ci separa dalla guerra nucleare. Con un sofisticato (o sofistico) gioco di parole, il filosofo dice che l’obiettivo dell’Occident è quello di non far perdere l’Ucraina, non di farla vincere.
In sostanza, Biden dovrebbe percorrere gli stretti sentieri che portano al negoziato evitando che i Paesi coinvolti, Russia compresa, perdano la faccia. È realistica questa posizione o non è forse un’altra espressione di quell’intellettualismo astratto che connota molta parte della produzione del teorico tedesco?
COMPROMESSI
Per Roberto Esposito e Carlo Galli, due fra i maggiori filosofi politici italiani, non solo lo è ma ha anche il vantaggio di non essere ipocrita, di non rimuovere il pericolo concreto dell’ecatombe nucleare. Essi chiedono perciò un accordo in cui ognuno dei due contendenti rinunci ad una parte delle proprie pretese. Il problema di ogni “compromesso”, però, è che spesso è tale solo per una delle due parti in causa, mentre l’altra vuole tutto e di più. Senza contare che un fronte democratico imbelle di fronte a despoti e regimi totalitari, su cui cioè aleggi lo spirito di “Monaco ‘38”, non porta a buoni frutti come proprio quell’esperienza storica ci insegna.
Che una guerra nucleare sia purtroppo nell’ordine delle cose, e che pertanto sia necessario agire con celerità scegliendo la via della negoziazione, ne è convinto anche un altro vecchio pensatore europeo, Edgar Morin. L’ormai ultracentenario ma lucidissimo teorico della complessità non le manda a dire a Putin, «erede nello stesso tempo del peggior aspetto dello stalinismo e del dispotismo zarista», ma non ha nemmeno parole di elogio per Zelensky. Pur riconoscendo al leader ucraino grandi capacità di leadership, Morin, nel presentare il suo ultimo libro “Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina” (Raffaello Cortina), accusa il presidente ucraino di “corta veduta” nel non voler negoziare con la Russia già ora, a prescindere dalle condizioni poste.
Il fatto che Habermas e Morin dimenticano è però che il popolo ucraino è tutto con Zelensky e che vivrebbe come un “tradimento” il suo abbandono del campo. Ce lo ricorda Volodymyr Yermolenko, certamente il più conosciuto filosofo ucraino dei nostri giorni. Proprio questo elemento “democratico” è quello che sembra mancare in quasi tutte le prese di posizione filosofiche, e non solo, sulla guerra. Anche su Donbass e in Crimea non dovrebbero essere forse i cittadini, in libere e controllate elezioni, a scegliere con chi stare? Forse una filosofia veramente democratica dovrebbe porsi questa domanda, e non ragionare solo in un’ottica di politiche di potenza.