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Tino Stefanini rivela: "Rapine, soldi e tanta galera. La mia vita da bandito"

di Michele Focarete lunedì 10 aprile 2023

4' di lettura

Una vita da bandito. Non è il seguito della canzone di successo di Ligabue, ma l’esistenza ai confini della realtà di Tino Stefanini, 70 anni, 50 dei quali vissuti dentro e fuori le patrie galere di tutta Italia, elemento di spicco delle banda Vallanzasca, si proprio quella del bel Renè. Stefanini adesso è in detenzione domiciliare e vive a Milano nella casa della mamma, al quinto piano di un palazzo signorile al Gallaratese. Ci riceve in pantofole, Jeans, camicia a righe bianche e blu e perenne sigaretta in bocca. «Pensi che non dovrei neanche guardarle – ci dice sorridendo – perché sono invalido al cento per cento per le tante patologie che ho e il fumo mi uccide».

Breve pausa. «Ma se non mi hanno ammazzato le pallottole dei mitra, mi sa che campo ancora tanto». E mostra le cicatrici di quattro fori nell’addome e uno nel gomito destro. Cinque buchi rimediati in uno dei tanti conflitti a fuoco con le forze dell’Ordine. Una raffica di M12 che avrebbe abbattuto un elefante. Lui invece lo salvarono i medici dell’ospedale Niguarda. E alla mamma che gli teneva la mano, con accanto il prete pronto e recepire una sua confessione, un pentimento, riuscì a dire: «Tranquilla, fino a dieci colpi li tengo». Era il 1982.

COME IN UN FILM
Ma prima e dopo di allora, lui e la banda vissero come in una pellicola in bianco e nero degli anni Settanta di un film di Jacques Deray. Proprio in quegli anni, infatti, il gruppo di fuoco diventa per tutti la banda della Comasina, che incute terrore e miete vittime ovunque. «Di quel gruppo – ricorda Stefanini – siamo rimasti solo Io, Osvaldo Monopoli e Renato Vallanzasca. Gli altri tutti andati». E li cita uno per uno. «Mario Carluccio, morto in un conflitto a fuoco. Tonino Furiato, ucciso a Dalmine dalla polizia. Antonio Colia, in un incidente in moto. Franco Careccia, per tumore. Vito Pesce, deceduto in carcere per cirrosi. Claudio Gatti, assassinato in galera nell’ora d’aria. Tonino Rossi, per infarto. Enrico Merlo, tumore al cervello. Rossano Cochis, per infarto dopo un tuffo in mare e Claudio Basanisi, impiccato a Re Bibbia».

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Ricorda poi come ha conosciuto René. «Avevo solo 17 anni. Lui era già stato dietro le sbarre. Abitava a Lambrate, ma si spostò alla Comasina per incontrare un giovane che avrebbe dovuto fargli da autista durante i colpi. Renato arrivò in Jaguar. Io ero davanti al bar-tabacchi di via Teano, dove ci si trovava sempre tra ragazzi. Mi fermò e mi disse: se vedi Massimo digli che lo cerca Renatino. E diventammo amici». E poi va a ruota libera su un passato che giura di aver cancellato «perché sono cambiato». Quel Tino Stefanini «è morto e sepolto. Ho commesso reati e li ho pagati tutti. Poi tra un anno e mezzo sarò libero per fine condanna».


E snocciola racconti che neppure la più fervida fantasia noir potrebbe imbastire. Tantissime rapine, infinite sparatorie, un omicidio per il quale si è beccato 26 anni, sei tentati omicidi, quattro evasioni. Come quella volta che avrebbe dovuto fare la fuga dal carcere di Fossano, con l’aiuto della banda, ma qualcosa andò storto: non trovò la pistola che gli avevano promesso nella toilette dell’autogrill, sulla prima area di sosta in direzione Milano. Evase però poco più tardi nel febbraio 1977. «Io ed altri cinque, con il classico lenzuolo annodato ci calammo dopo aver segato le sbarre. Arrivai a Milano e per tirare avanti in quattro mesi racimolai 220 milioni mettendo a segno alcune rapine. Intanto da San Vittore erano scappati anche Colia, Careccia, Pesce, Merlo e Rossi. Ci riunimmo tutti perché volevamo liberare René dal carcere di Pisa. Ma era tutto blindato, militarizzato. Così decidemmo di far passare un po’ di tempo e ci rifugiammo in una villa sul mare, a Lido Silvano di Taranto. Ma fummo arrestati: ci circondarono polizia e carabinieri e i loro cecchini erano appostati ovunque».
Perché bandito? «Per soldi. Per fare la bella vita. Donne, champagne e fuoriserie. Andavamo nei locali e non abbiamo mai pagato. A 21 anni avevo sotto casa una Dino Ferrari Coupé, una Porsche e una 124 coupé. Tra il 1985 e l’87 mi mangiai due miliardi di lire tra casinò e stravizi. Non sono un eroe. Gli eroi sono i padri che tornano a casa stanchi, con le mani sporche di grasso, e fanno quadrare i conti con sacrificio. Io sono stato un bandito per il Dio denaro e ho pagato». Bisbocce e sparatorie entrando e uscendo da 40 case circondariali. Dove ha incontrato malavitosi di ogni credo e regione d’Italia. Da Francis Turatello a Tommaso Buscetta. Quelli della banda della Magliana, Marco Medda, Coco Trovato, i Crisafulli, Pepè Flachi. Tutti. Poi spende due parole per Vallanzasca e Antonio Colia. «Renato era coraggioso, esageratamente coraggioso, a volte incosciente. Mentre Antonio è stato il più grande. Quello più scaltro e meticoloso. Calcolava ogni mossa. Per lui mi sarei fatto anche uccidere».

IL SOGNO DEL RISTORANTE
Pausa e ennesima sigaretta. «Acqua passata. Adesso, a 70 anni suonati e una vita al fresco, ho il permesso di uscire dalle 10 alle 13. Faccio la spesa, vado dal barbiere, cucino, vedo mio figlio. Il 18 aprile inoltre presento il mio libro, “Figli delle catastrofi”, scritto insieme con Giorgio Panizzari. Pagine di vite segnate dalla ribellione. Io come appartenente alla più importante batteria malavitosa di quegli anni. Panizzari, invece, è stato uno dei fondatori dei Nuclei armati proletari. E ho anche in lavorazione una sceneggiatura. Da sabato poi, per tutti i sabato mattina, farò volontariato alla cooperativa sociale Zerografica. Come vede sono totalmente cambiato. Quando sarò finalmente libero, potrei fare lo chef e magari aprire un ristorante».

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