Bullizzata, sospesa, ripresa col telefonino mentre si accascia sul pavimento (dopo che un adolescente l’ha colpita all’addome), accusata di molestie sessuali, costretta a lasciare il lavoro. E adesso decisa a farsi giustizia: anzi, a chiedere giustizia. Cioè a denunciare quest’anno (scolastico) di “soprusi”. Latina, Lazio, liceo scientifico G. B. Grassi: una di quelle scuole “che contano”, nel senso che la frequentano tanti ragazzi bene, rampolli di famiglie agiate. E poi c’è lei, un’insegnante di 52 anni, una docente di sostegno, che non ne può più. «Mi sento ferita, vado in procura».
A raccontare, a spiegare, a chiedere l’aiuto delle forze dell’ordine e della magistratura perché mica puoi finire così, nel 2023, in classe, dopo dieci anni di lavoro precario che sarà pure quello più bello del mondo (veder crescere i giovani, aprire loro le porte della conoscenze), ma che è anche il mestiere più difficile e sta diventano uno tra i più rischiosi. Non sai mai cosa ti può capitare. L’incubo, il calvario, chiamalo un po’ come ti pare, per questa prof di Latina inizia subito: il 30 settembre. Poche settimane dopo la prima campanella post estate. Sta uscendo nel cortile quando un giovanotto le piomba addosso, spinto da un compagno. La direzione cerca di minimizzare, è-solo-un-incidente, ma intanto lei rimedia 27 ore su una barella all’ospedale Goretti e due settimane di riposo imposte dal Campus biomedico di Roma, dove le diagnosticano una sindrome vagale, che è una specie di sincope: e infatti perde conoscenza due volte.
In quindici giorni torna in sella, pardon: in cattedra, perché certi professori son fatti così. Mollare mai. Epperò scopre che è-solo-un-incidente un piffero: la sua caduta (che di accidentale non ha niente) è stata ripresa coi cellulari dei ragazzi, è diventata un video (che nel frattempo è stato condiviso sui soliti social) e l’han visto tutti. E mentre gli inquirenti son lì che valutano la posizione di cinque adolescenti, tutti tra i sedici e i diciassette anni, perché certe cose non si fanno e non dovrebbe nemmeno essere la polizia a spiegarlo, ecco che la mamma di uno di loro, di uno dei ragazzini che han confezionato un secondo video che ritrae una collega della prof di Latina in sovrappeso con la musichetta de Il maialino birichino, mini clip che è ancora lei, la docente di sostegno, a portare in questura, ecco che la mamma di uno di questi ragazzini col ditino facile su Instagram presenta un esposto.
Accusa la prof di «molestie verbali a carattere esplicitamente sessuale». E il dirigente scolastico la sospende e afferma che potrebbe arrecare «turbamento e pregiudizio» agli studenti ed è preoccupato per l’immagine della scuola e, alla fine, basta. Lei, la prof, si ritrova senza lavoro. Di punto in bianco. Senza stipendio. Vincenzo Lifranchi, che è il preside del Grassi, commenta che: «Si tratta di episodi diversi e non correlati. Sono dispiaciuto, ma fatti e atti sviluppatisi nel tempo non mi hanno consentito di fare altro». La madre dell’accusa di molestie pare tenti anche di rettificare «dicendo solo che avevo usato parole pesanti, ma è comunque inaccettabile», si sfoga, ora, la diretta interessata che vuole andare fino in fondo e riabilitarsi del tutto. «Non ho mai assunto atteggiamenti sbagliati e non ci sto a dovermi tenere un’accusa tanto infamante quanto falsa». È una questione di educazione, prima che di istruzione. Plessi, aule e laboratori didattici son diventati un far-west che solo vent’anni fa non si sarebbe mai neanche immaginato. La-maestra-ha-sempre-ragione, ti ammoniva la mamma se provavi a sgarrare. Oggi no. Oggi c’è la prof di Parma che finisce all’ospedale, assieme a cinque studenti, perché qualche ragazzino «imbizzarrito» (le virgolette sono del preside di turno) s’è messo a spruzzare spray al peperoncino tra i banchi.
Oggi c’è la docente di 34 anni di Castellammare di Stabia, nel Napoletano, che viene picchiata dalla madre inferocita di una sua alunna, con mezza famiglia che piantona il classico nel quale lavora, perché lei, la ragazzina, s’è buscata un brutto voto. Colpa della prof, sia chiaro, non sua. Oggi c’è l’insegnate di Rovigo a cui sparano con una pistola ad aria compressa, c’è il collega di Modena che viene aggredito perché si permette di dire no-a-scuola-non-si-fuma. La vicenda (giudiziaria) dell’insegnante di Latina avrà il suo epilogo in procura, ma a guardare il quadro complessivo già adesso lascia una certa amarezza.