I campi allagati della Romagna. Il fango, le case inondate, le aziende agricole distrutte e le ditte con la pala in mano (ché gli imprenditori son fatti così, se c’è da rimboccarsi le maniche li trovi in prima fila pronti), gli sfollati, i letti nella palestra comunale perché ci si arrangia come si può, la gara di solidarietà, la Protezione civile, i volontari, Lugo, Ravenna, Forlì, Faenza. Dall’altra parte la prevenzione, ché ce lo ricordiamo sempre troppo tardi, quando oramai i problemi si sono manifestati, quando gli argini sono straripati e quando l’acqua non riesci a domarla. L’acqua e qualsiasi altro disastro naturale. Non siamo pronti, anzi: siamo pronti a metà. Attualmente, in Italia, solo il 52% delle abitazioni civili ha una copertura assicurativa contro gli incendi e poco meno del 5% ha esteso quella polizza agli eventi calamitosi. Lo dice l’Ania, l’Associazione nazionale delle imprese assicuratrici, e no, non è una bella notizia. Non è nemmeno una notizia rassicurante e non è una notizia che fa ben sperare, perché se da un lato i contratti assicurativi per gli incendi, quantomeno, negli ultimi anni, un lieve rialzo l’han pure segnato (erano il 42% nel 2016), quelli sulle calamità naturali sono in recessione, dello 0,1% rispetto al 2021.
La siccità prima. L’alluvione adesso. Le Marche, l’anno scorso. I terremoti. L’Abruzzo, l’Umbria. Amatrice, Accumuli, Norcia. «Le calamità naturali sono fenomeni sempre più frequenti nel nostro Paese», chiarisce, appunto, una nota dell’Ania, «mala diffusione delle coperture per l’alluvione e il terremoto è molto ridotta». Eccoli lì, i numeri, impietosi: al 31 marzo del 2022 (dati più aggiornati non ci sono, ma la fotografia è abbastanza recente per avere un quadro della situazione) il mercato contava qualcosina in meno di 1,4 milioni di polizze con l’estensione di catastrofe naturali, 579mila per la copertura esclusiva del rischio sismico, 275mila per quello alluvionale e neanche mezzo milione (parliamo di 496mila unità) per entrambi. Ché uno non ci pensa, ma-va-là-succede-mica-a-me. E poi capita, invece. E capita ovunque. E capita che perdi tutti, la ditta, la casa, la stalla e il garage. Se ti va bene, perché c’è anche chi muore e lì non puoi proprio più farci niente. È successo in Valtellina nel 1987 (l’alluvione) ed è successo in Irpinia nel 1980 (il terremoto).
Certo, ci sono zone più rischiose di altre. Però il pericolo zero, in natura, c’è no. L’incidenza percentuale delle unità abitative assicurante contro le catastrofi arriva al 10% a Trento, Firenze, Siena, Mantova e Brescia; mediamente al Nord tocca il 6,2% (con picchi dell’8% proprio in Emilia Romagna) e scende al Centro (5,3%) per crollare drasticamente al Sud (1,6%). Tanto per capirci: se a Milano il 7,5% delle case ha una copertura contro le catastrofi della natura, a Roma ce l’ha appena il 4% e a Napoli non si arriva nemmeno al 2 (è l’1,7%). Secondo Daniela D’Andrea, che è il ceo del gruppo assicurativo Swiss Re Italia, «l’87% delle perdite dovute alle catastrofi naturali, da noi, non è coperto», mentre nel Regno Unito quella percentuale è del 25%, in Svizzera è del 31%, in Francia del 47% e in Germania del 58%. Basterebbe questo. Bankitalia ha recentemente stimato che, appena nel 2020, i danni registrati a causa del maltempo e degli eventi estremi hanno inciso il 2% del Pil, il prodotto interno lordo: l’Ivass, che è l’Istituto per la vigilanza delle assicurazioni, nel luglio del 2019, sosteneva che considerando giusto i terremoti e un arco temporale di cinquant’anni (dal 1967 al 2017), risistemare, ripulire e rimettere in sicurezza le aree colpite, ci è costato circa 108 miliardi di euro.
Che è un fiume in piena, sì: ma di denaro. «La soluzione più efficace per affrontare questo problema è l’adozione di uno schema nazionale di copertura assicurativa contro gli eventi catastrofali basato sulla mutualizzazione del rischio e sulla partnership tra settore pubblico e privato, come avviene in molti altri Paesi», continua l’Ania, «questo meccanismo consentirebbe di ridurre i costi per la gestione delle emergenze e garantirebbe una maggiore prevenzione, nonché standard adeguati di sicurezza, tempi certi e ragionevoli di risarcimento del danno, trasparenza nelle procedure». Poi c’è l’altro aspetto, che è quello culturale: dobbiamo convincerci che i disastri, purtroppo, accadono. Che non è colpa di nessuno se piove troppo o piove troppo poco, però è “colpa” nostra se non prendiamo tutte le precauzioni (comprese quelle economiche) che ci sono.