Occhi lucidi, segno del cuore con le mani giunte, aria spaesata, tenerezza e miele nelle sue parole. L'addio al calcio (giocato) di Zlatan Ibrahimovic forse non è avvenuto come se lo sarebbe aspettato lui, e di sicuro non è stato come se l'aspettavano tutti gli altri, tifosi del Milan e non. Intendiamoci: a 41 anni e mezzo, appendere gli scarpini al chiodo è più che logico, naturale. Ma non per "Dio" Zlatan, salutato a San Siro con un significativo GodBye. Manca una "O", anche perché l'ultimo saluto non è stato perfetto. Romantico sì, ma non perfetto. E per questo sicuramente più vero.
L'AZZARDO (IM)PERFETTO
Molti avevano consigliato allo svedese di mollare il colpo un anno fa, nel giorno dello scudetto all'ultima giornata contro il Sassuolo. Un cerchio che si chiudeva nel migliore dei modi: il ritorno a Milano nel gennaio del 2020 con un Diavolo in disarmo, forse il punto più basso del decennio, quindi la lenta inesorabile risalita sotto il segno di Z. Trascinatore, motivatore, allenatore occulto, gran consigliore di mister Stefano Pioli. Il boom in epoca Covid, quasi una magia inspiegabile. La prima stagione piena, 2021-22, ad alto livello e sorprendentemente continua, con secondo posto e qualificazione Champions. Un 2022 strepitoso, poi l'infortunio che di fatto gli fa saltare quasi tutta la cavalcata della primavera 2023, in cui Ibra recita un ruolo da comparsa in campo ma, conferma chi bazzica Milanello, assolutamente determinante nello spogliatoio. Lasciare da vincente, di nuovo, nella piazza più amata e con un ruolino da recort. Veni, vidi, vici. Meglio di così, era difficile immaginare il passo d'addio. Ma Ibra non è mai banale, come quando nei primi mesi di ritorno in rossonero aveva azzardato che se fosse arrivato un po' prima il primo posto non sarebbe stato una utopia. Ridevano tutti, alla fine ha avuto ragione lui.
L'ULTIMA OSSESSIONE
Nella testa del campione di Malmoe c'era però un tarlo, un vuoto da colmare (al di là del comprensibile senso di paura per un futuro senza pallone che ha assalito anche lui): la Champions League, la sua grande ossessione. Non ce l'ha fatta, Ibra: non ha retto il suo fisico, solo 4 partite in stagione condite da un gol, non ce l'ha fatto il Milan, ancora acerbo e sgonfiatosi sul più bello per mancanza di esperienza e personalità, proprio quella che avrebbe dovuto garantire il suo totem (lo ha ricordato Pioli, prendendosi parecchi sfottò, dopo il derby perso male in semifinale contro l'Inter). Alla fine, una leggenda degli anni Duemila lascia dopo 866 partite e 511 gol complessivi con una maglia di club (e che club: il Malmoe, l'Ajax, la Juventus, l'Inter, il Barcellona, il Milan, il Psg, il Manchester United prima della parentesi di Los Angeles con i Galaxy e the last dance in rossonero), ma senza la coppa più ambita, quella che vale una carriera. Comparsate ai Mondiali e agli Europei, nessun acuto in Champions, mai un Pallone d'oro. A giudicarlo da questi numeri, Ibra non può essere sullo stesso piano né di Leo Messi né di Cristiano Ronaldo, i dominatori della sua era. Ma forse nemmeno di Ronaldinho, Henry o Eto'o, tre grandissimi della generazione immediatamente precedente con cui ha spesso incrociato i propri passi. Eppure, eppure...
A IMMAGINE DI ZLATAN
Eppure, Ibra per carisma, personalità e peso specifico, nonché qualità tecniche pure, si è sempre considerato su quel podio, senza paura di apparire smargiasso. E da un certo punto di vista, ha avuto ragione lui anche qua: nessuno ha avuto la sua capacità umana di incidere in egual misura ovunque sia andato, non adattandosi all'ambiente che l'ha accolto ma facendo in modo che fosse l'ambiente ad adattarsi a lui, alla sua figura ingombrante, plasmando compagni e tifosi a sua immagine e somiglianza. Con il passare degli anni, anche l'unico suo parziale fallimento, l'anno in chiaroscuro di Barcellona vissuto all'ombra di Messi, è stato rivalutato in questi ultimi tempi.
IL TEATRO DEI SOGNI
Se la Champions è stata il teatro delle meraviglie di Leo e Cristiano, con numeri che forse solo Mbappè e Haaland nel calcio attuale sembrano in grado di avvicinare, Ibra è stato lui stesso "il teatro dei sogni" di milioni di tifosi. Il simbolo di una volontà ferrea in grado di piegare classifiche e calendari, pronostici e previsioni. Con la forza di una rovesciata a 40 anni, un colpo di testa impossibile, una acrobazia da stagionato maestro di taekwondo. Ma soprattutto con la sola forza di una parola, un sorriso sornione, una provocazione, un gesto della mano.
SPECIALE COME MOU
Più forte di Messi e CR7? No. Ma forse più decisivo di loro, più impattante. E forse pure più saggio, visto che ha scelto di dare "l'arrivederci" senza tentare la fuga nei paradisi artificiali del calcio arabo. Un viale del tramonto che non avremmo meritato. In questo senso, la parabola di Zlatan ricorda quella di Josè Mourinho: anche lontano dal loro prime", il momento in cui cioè entrambi sono stati davvero gli special ones del pallone mondiale, nessuno come loro è stato in grado di incidere sulla realtà, piegarla alla loro visione e, perché no, alla loro propaganda. E se è vero che il calcio non si gioca solo negli stadi e con la musichetta della Champions in sottofondo, ma anche in un parcheggio di periferia tra clacson e treni che sferragliano nelle vicinanze, allora sì: Ibra, come Mou, è l'eroe popolare fatto non di razionalità, ma di cuore e dolorose, dolcissime, necessarie illusioni.