Diminuisce dello 0,9% la pressione fiscale nel primo trimestre 2023 mentre, almeno statisticamente, lievita, del 3,1% il potere d’acquisto delle famiglie. I dati dell’Istat sull’andamento del primo trimestre dell’anno confermano l’andamento “migliorativo” della congiuntura. Gli interventi per contenere gli aumenti del costo della vita (dalle bollette ai carburanti), hanno contribuito non poco a rosicchiare un punto percentuale l’imponente pressione fiscale. Certo ogni medaglia ha il suo rovescio. E infatti per raffreddare i costi energetici i conti pubblici sono stati inevitabilmente “appesantiti”.
MENO GETTITO
E così salta fuori che, sempre nel primo trimestre del 2023, «l’indebitamento delle amministrazioni pubbliche in rapporto al Pil» ha messo a segno «un peggioramento rispetto allo stesso periodo del 2022 per la minore incidenza delle entrate, riflesso in una riduzione della pressione fiscale». In particolare, sottolinea l’Istituto nazionale di statistica, il deficit è arrivato al 12,1% contro l’11,3% dei primi tre mesi dell’anno scorso. Tirando le somme «il saldo primario delle Ap (indebitamento al netto degli interessi passivi) è risultato così negativo. «Con un’incidenza sul Pil del -8,8% (-7,6% nel primo trimestre del 2022).
Anche il saldo corrente è stato negativo, con un’incidenza sul Pil del -6,0% (-5,9% nel primo trimestre del 2022)». C’è da dire che grazie ad «una sostanziale stabilità dei prezzi (+0,1% la variazione congiunturale del deflatore implicito dei consumi)», il potere d’acquisto delle famiglie è cresciuto del 3,1%. Dato discutibile? Non proprio se si tiene conto dell’aumento dell’occupazione nello stesso intervallo di tempo. E infatti l’Istat sottolinea che il miglioramento riflette dell’aumento dei redditi disponibili per le famiglie. Chi prima non era occupato non percepiva reddito contribuendo al bilancio familiare. Una nuova entrata mensile ovviamente migliora il bilancio familiare. Certo l’inflazione continua ad erodere il potere d’acquisto.
Così come l’aumento del costo del denaro (prestiti, mutui e rate varie), limita la capacità di spesa nelle famiglie.
La tradizionale propensione degli italiani al risparmio torna però a crescere (+2,3%) dopo un periodo in cui per fare fronte al maggior costo della vita le famiglie hanno dovuto intaccare i risparmi. Un dato inedito: e infatti tra dicembre 2021 e marzo 2023, il saldo totale dei conti correnti di famiglie e imprese era calato di oltre 61 miliardi di euro (da 2.076 a 2.015): con una variazione negativa inusuali per le tradizionali “formichine” italiane. Il reddito disponibile delle famiglie consumatrici è aumentato del 3,2% rispetto al trimestre precedente, mentre la spesa per consumi finali è cresciuta dello 0,6%. «Il potere d’acquisto delle famiglie è aumentato del 3,1% rispetto al trimestre precedente, grazie al sensibile rallentamento della dinamica dei prezzi. Interessanti l’analisi dei dati offerta dalla Confesercenti: «Nei primi tre mesi i redditi tornano a crescere, ma il potere d’acquisto delle famiglie è ancora sotto (-1,1%) ai livelli del 2019». Questo perché la politica restrittiva della Banca centrale europea sta contribuendo a frenare «ulteriormente le prospettive di consumo». Tirando le somme «le famiglie continuano a contenere le spese, sacrificando 7,5 miliardi di euro di potenziali consumi per ricostituire il risparmio perduto nell’ultimo anno a causa del caro-vita», fa di conto la confederazione dei commercianti.
CONSUMI IN CALO
A dirla tutta già da tempo il calo dei consumi suona come un campanello d’allarme. La scorsa settimana l’Osservatorio permanente Confimprese-Jakala - che analizza proprio l’andamento dei consumi nei settori ristorazione, abbigliamento-accessori e altro retail- ha registrato una flessione del totale mercato che chiude a -4,9%. Un rallentamento internazionale ha qualche effetto anche su quella “made in Italy”. E infatti- sempre nel primo trimestre del 2023 - la «quota di profitto delle società non finanziarie, pari al 43,7%, è diminuita di 0,9% rispetto al trimestre precedente». Così come il tasso di investimento delle «società non finanziarie, pari al 24%, è diminuito di 0,3% rispetto al periodo precedente».