Nel 1976 la casa editrice Feltrinelli pubblicò un libro che fece un certo rumore. Ne erano autori affermati scienziati e accademici italiani, tutti con spiccate simpatie di sinistra. Eravamo, in effetti, nel periodo immediatamente seguente al Sessantotto e la sinistra intellettuale produceva una quantità di studi di critica del sistema e al potere dominante. Il volume si chiamava L’ape e l’architetto e il curatore era Marcello Cini, forse il più importante fisico italiano del tempo, messo in cattedra alla Sapienza nientemeno che da Edoardo Amaldi. Cini era un marxista ateo vecchio stampo, fra i primi, fra l’altro, ad aderire al movimento ecologista, che era allora tutt’altra cosa dall’ambientalismo fazioso e ideologico dei nostri giorni.
Il libro era importante perché rappresentava un momento di una vasta discussione che teneva impegnati molti intellettuali di sinistra in quegli anni e che concerneva il tema della “non neutralità della scienza”. A chi infatti perorava l’immagine di una scienza infallibile e soprattutto “oggettiva”, i rappresentanti di questa corrente facevano presente che la pretesa “oggettività” e “purezza” del lavoro scientifico era una sovrastruttura ideologica volta a mascherare concreti rapporti di potere. Lungi dall’essere “neutra”, la scienza assume infatti, spesso inconsapevolmente, i presupposti e i pregiudizi del modo di pensare che ha corso in un determinato tempo e da cui gli scienziati non possono dirsi immuni. Ovviamente, Cini e compagni non volevano dire che la scienza, cioè la loro stessa attività, fosse solo un’accozzaglia di bufale: essi volevano soltanto combattere coloro che, in suo nome, affermano che certe tesi, come per esempio quella odierna di un cambiamento climatico di origine antropica, siano indiscutibili.
La scienza, come ogni attività umana, vive e prospera sul dubbio. Essa si fonda infatti su pregiudizi che possono essere articolati in giudizio, ma non possono mai essere del tutto eliminati perché all’uomo non è dato trovarsi in una situazione asettica. Lo scienziato che non è consapevole di ciò è, per gli autori del libro, uno pseudo scienziato o un servo del potere (che per Cini e compagni era allora quello del capitalismo e della grande finanza). Contestare la “neutralità della scienza” significava rifiutarne la concezione che ne fa un mero strumento che poi tocca all’uomo usare per un fine buono o cattivo, quasi che i fini e i valori umani non fossero già entrati fin dall’inizio nell’analisi scientifica. Ora, pensate un attimo a che cosa accadrebbe se oggi qualcuno osasse affermare queste tesi in un dibattito pubblico. Come minimo sarebbe accusato di negazionismo e immoralismo. E sarebbe escluso dal consesso civile o addirittura messo fuori legge (come vorrebbe qualche sprovveduto intellettuale o politico). E lo sarebbe soprattutto a sinistra, il che fa ben vedere come questa parte politica si sia negli anni completamente trasformata. Essa, che aveva fatto della critica al sistema e del dubbio sul potere la propria ragion d’essere (non a caso Marx era per il filosofo francese Paul Ricoeur uno dei “maestri del sospetto”), è oggi diventata la più stretta alleata del sistema e del potere dominanti. Nonché del conformismo delle élite, e persino del capitalismo. Pensate solo a quante volte si è stati zittiti in nome del totem della Scienza ai tempi del Covid, salvo scoprire poi che certi i dubbi erano più che fondati. Oppure si pensi, appunto, a quel che sta accadendo in questi giorni sul fronte della sinistra, dei giornaloni e di una parte della scienza (quella che non sta in laboratorio ma firma appelli) a proposito del cambiamento climatico. I teorici della “non neutralità della scienza” non erano degli oscurantisti o irrazionalisti: volevano solo ricordarci che veramente scientifica è solo la scienza che riflette non solo sui dati ma anche su sé stessa.