Il boss mafioso Matteo Messina Denaro ha fatto sapere, tramite il suo legale, che le sue condizioni di salute non sono più compatibili con il 41 bis a cui è sottoposto nel carcere de L’Aquila e che perciò lo Stato deve liberarlo al più presto da queste catene. Quasi come se fosse lui a dover decidere della sua sorte, e quasi che il regime speciale sia una porta girevole in cui si entra o esce a piacimento. Viste le gravi imputazioni a suo carico, nessun buonismo è concesso. E le persone di buon senso non possono che gridare forte che il boss dove restare ove è. Nessun segno di debolezza ci è concesso di fronte a un criminale di tal fatta.
Ricostruiamo i fatti. Nonostante che nella cella adiacente la sua sia stato attrezzato un vero e proprio presidio medico per curarlo, l’altro ieri il detenuto è stato trasportato d’urgenza nell’ospedale del capoluogo abruzzese, ove ha subito un intervento secondario legato alla sua malattia. Certo, il tumore al colon è una di quelle malattie che non perdonano. Il fatto poi che essa sia giunta al quarto stadio lascia presumere che il boss non abbia più molto tempo di vita a disposizione. Ma da qui a richiedere, come ha fatto l’avvocato Alessandro Cerella, che il suo assistito sia trattato «come un cittadino normale», ce ne corre. Dopo avere osservato che il boss «ormai non mangia più, ha difficoltà anche a bere, ha bisogno di una flebo per essere alimentato», lo stesso Cerella non ha esitato a definire «bullismo di Stato» il trattamento a cui è consegnato il noto mafioso, che, come si ricorderà, era stato catturato in un blitz il 16 gennaio scorso.
Per una strana coincidenza proprio nelle stesse ore in cui Messina Denaro era ricoverato, veniva anche depositato il testo dell’interrogatorio a cui è stato sottoposto il 13 febbraio scorso, subito dopo la cattura.
Fra prevedibili distinguo («sono un uomo d’onore ma non uno di Cosa nostra») e tentativi di discolparsi dagli episodi più gravi che gli sono attribuiti, dal verbale emerge tutta l’arroganza e la protervia dell’imputato. Certe sue dichiarazioni, considerate insieme alle richieste e alle parole espresse per bocca dell’avvocato Cerella, mostrano soprattutto la strana idea che il boss ha dei suoi rapporti con lo Stato, che giudica non solo una controparte, proprio come fanno i mafiosi, ma pure come un’entità fessacchiotta che si può prendere facilmente in giro. In ogni caso, un’istituzione di minor peso e valore rispetto a quella che egli rappresenta.
Dopo aver detto a chiare lettere che non si sarebbe mai pentito, ha aggiunto in modo beffardo: «Voi mi avete preso per la mia malattia». Quasi a voler rimarcare il fatto che senza di essa avrebbe continuato facilmente ad aggirare tutti i tentativi di cattura messi in atto dalle forze di polizia in questi anni. E adombrando forse addirittura il fatto di aver voluto farsi catturare, o comunque di aver messo in conto l’evenienza. Sempre durante l’interrogatorio ha definito la sua vita «movimentata», come a dire che non se ne è stato rinchiuso e nascosto in un luogo preciso ma, grazie al suo potere e alle sue aderenze, ha avuto libertà di movimento e persino di entrare e uscire dall’Italia nonostante fosse per il nostro Stato un pericoloso latitante. Poi a un certo punto ha scelto sì di vivere, con una falsa identità, fra la gente di Campobello, ove è stato catturato, ma lo ha fatto con piena cognizione di causa perché se si vuol nascondere un albero è bene piantarlo in una foresta. Con una punta di orgoglio, quasi ad avvalorare l’immagine di uomo colto e persino raffinato che una certa retorica gli ha attribuito, ha tenuto a precisare che la metafora dell’albero e della foresta è stata da lui presa in prestito da un vecchio proverbio ebraico.
Insomma, ricapitolando, il ragionamento del boss è più o meno questo: se voglio beffare lo Stato lo beffo come e quando voglio, perché io sono io e voi non sete nessuno; se poi lo Stato mi cattura, riesce nell’impresa solo perché io sono malato e ho dovuto adottare un piano b. Inoltre: proprio perché malato, lo Stato che mi ha catturato deve considerarmi esente dalle sue leggi e quindi non farmi stare in carcere e considerarmi un “cittadino normale” nonostante le gravi imputazioni che pendono sul mio capo. Chi sia il vero bullo, in questa situazione, non è difficile comprenderlo, anche perché, come ha osservato Gianmarco Cifaldi, il garante dei detenuti dei carceri abruzzesi, tutte le azioni che lo Stato sta svolgendo «vanno a garantire i diritti costituzionali sia per il boss sia per tutte le persone libere». Che il boss rimanga in carcere e ringrazi di trovarsi in uno Stato democratico che lo curerà anche in carcere fino all’ultimo giorno.