Sono rimasto colpito da un dato che, a mio avviso, merita qualche riflessione di tipo sociologico: a Milano più di una famiglia su due ha un unico componente, ossia il 54% dei 762.968 nuclei familiari. Insomma, oltre la metà dei milanesi è single. E neppure il carovita, il caroaffitti, il carocarburante, il carobollette hanno indotto gli abitanti del capoluogo lombardo a mettersi insieme, a vivere insieme, ad accasarsi, per risparmiare, nonostante chi abita in solitudine debba sostenere costi molto più alti rispetto a quelli che gravano sulle tasche di chi sta in coppia. In effetti, non si può non considerare questo fatto: oggi la gente predilige vivere da sola, il matrimonio non è più un obiettivo esistenziale di fondamentale importanza, un passo dovuto, un passaggio forzato, bensì qualcosa che non è obbligatorio debba accadere o che comunque può attendere.
Mi è impossibile interpretare questa realtà come se fosse preludio alla deriva umana e sociale, alla morte di ogni valore, alla fine del buon costume, alla perdita di quella tradizione fin troppo esaltata che vede nella famiglia, cosiddetta “tradizionale”, il perno e il centro di ogni cosa. Anzi, direi che in questi numeri riferiti a Milano ci leggo una sorta di progresso e di evoluzione. L’individuo ha forse appreso a stare da solo senza sentire il bisogno di stare con chiunque, di accompagnarsi a tutti i costi, di essere insieme a qualcuno per definirsi. Siamo forse meno ipocriti di un tempo quando i matrimoni duravano sì, ma a suon di corna e rospi da mandare giù, e, pur di non intraprendere una separazione, che era ritenuta una vergogna, ci si costringeva a trascorrere il resto della esistenza con un uomo o una donna che non si amava più o che non si aveva amato mai. Il tutto per una specie di dovere morale e sociale.
Oggigiorno stare da soli non ci terrorizza più come un tempo, quando non essere sposata per una donna sopra i venticinque voleva significare essere zitella, quindi essere pure derisa, ghettizzata, emarginata ed etichettata. Adesso noto che sono copiose le trentenni o quarantenni o cinquantenni e oltre non sposate e neppure fidanzate e tuttavia felici, in quanto non è necessario avere un uomo accanto per sentirsi realizzate e compiute. Lo stesso vale per gli uomini, va da sé, sebbene il sottoscritto sia convinto che per noi sia meno facile, ovvero più complicato, affrontare la solitudine. Io stesso, allorché mi ritrovai single e con due gemelline, essendo venuta a mancare la mia prima consorte, sperimentai la totale disperazione, dalla quale mi trasse in salvo la mia seconda nonché attuale moglie, con la quale vivo da oltre cinquantacinque anni. Talvolta mi domando come io faccia a sopportarla, altre volte come ella faccia a sopportare me, in quanto detestarsi ogni tanto, ma soltanto ogni tanto, fa parte del matrimonio, quando esso è sano, un fatto naturale, fisiologico.
Da un uomo come me, sposato da ben oltre mezzo secolo, ci si aspetterebbe un elogio della vita coniugale. Ma non intendo esserne uno sponsor né per questo me la sentirei di tessere le lodi della singletudine. Ciò che merita il mio encomio è la libertà: quella di scegliere con chi stare, quella di scegliere con chi non stare più in quanto non ci si sente più felici e anche quella, parimenti innegabile e dolcissima, di scegliere di stare da soli senza avvertire il peso delle aspettative sociali, che non contano proprio niente. Prima della coppia c’è l’individuo. Questo non dovremmo mai dimenticarlo.