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Caivano, per le serie tv servirebbe la censura

di Gianluigi Paragone sabato 9 settembre 2023

Gianluigi Paragone

3' di lettura

Non so se sarà il rimedio giusto tuttavia non si può nemmeno pensare che un minorenne che spara o stupra in branco o partecipa a dinamiche criminali possa contare su una normativa a maglie larghe. I miei dubbi rimbalzano sulla gommosità di un sistema penale che è fallimentare sugli adulti figuriamoci sugli under 18, tutto qui.

Di una cosa sono sicuro: non si può continuare a pensare che televisione e social facciano da cassa di risonanza di una cultura criminale come fosse un esempio sociale. «Napoli sei tu, non Mare Fuori e Gomorra», dice la sorella del ragazzo musicista freddato per un parcheggio. Costei mette a fuoco una responsabilità che abbiamo voluto non guardare nella sua deriva diseducativa. Mare Fuori è l’ultima carta vincente di un mazzo che macina ascolti, marketing, replica serie e trasforma in divi personaggi negativi. Sia chiaro, non è la prima volta che il male diventa il protagonista della storia (pensiamo al Padrino e al merchandising) ma è la prima volta che se ne faccia una catena di produzione seriale, scritta dai migliori autori che diventano così complici di una retorica deviante pur di incassare e far girare la macchina. Ieri, Filippo Facci ha ripreso una questione decisiva: Gomorra è diventato un mito, passando da denuncia a descrizione furba, da luogo oscuro a palcoscenico da replicare.

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Gomorra è il primo calco da cui, in serie, sono partiti altri sottoracconti dove il criminale è vincente, fa i soldi, ha i riflettori puntati addosso, dove inciampa ma si può rialzare se la sua vendetta riesce bene. Mare Fuori è un’altra mitizzazione di un contesto sociale di devianza, cioè il carcere minorile, del quale, tra l’altro, si distorcono le rappresentazioni reali.

Potremmo andare avanti nell’elenco con l’epopea della Banda della Magliana in Romanzo Criminale, o con Suburra, oppure ancora (oltre confine) con La Casa di Carta, Breaking Bad, Peaky Blinders... Una vera e propria linea di produzione dove il criminale è protagonista attrattivo, dove fuori dal set diventa testimonial pubblicitario o fa i soldi con le serate in discoteca.

I social sono pieni di videoclip dove il delinquente trapper vince, fa la bella vita, ha le più belle donne: mi domando se non vi sia una responsabilità da parte di queste piattaforme nel diffondere e nel propagandare contenuti simili. Chiedo la censura social? Sì, non ho problemi a dirlo; non capisco perché YouTube, Facebook e compagnia varia possano chiudere pagine e canali colpevoli di produrre opinioni differenti tacciate per fake (e pure su questo prima o poi si dovrà pretendere chiarezza) mentre contenuti ad alto tasso di retorica criminale possono diventare virali e passando di chat in chat monetizzano. Sui social c’è davvero il peggio di questa narrazione.

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Qui non si tratta di voler negare la possibilità di riscatto sociale che pure minimamente ci può essere in Mare Fuori o in alcuni personaggi di Gomorra, qui siamo di fronte a una vera e propria industria narrativa dove si edifica attorno a figure negative mitizzandole. Personaggi che sono in carcere per scontare una pena o per tentare una rieducazione (e tanto ci sarebbe da ridire sulle reali condizioni di recupero...) sono “scritti” per creare il personaggio e la dipendenza da esso (la serialità). La cultura della legalità va così a farsi benedire sotto gli occhi di tutti.

Il governo potrà anche disporre l’aumento delle pene ma se la televisione e i social proiettano un messaggio distorto per cui il delinquente è dannatamente figo, allora nulla ha più senso. Vince il Male come modello: poi però quando dal set si materializza nella vita (ed è un attimo), ecco che il Buono affanna. Tra le lacrime di una sorella che con rabbia urla: «Napoli sei tu, non Mare Fuori o Gomorra».  

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