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Dl Caivano, serve la lotta senza quartiere alla criminalità

di Daniele Capezzone venerdì 8 settembre 2023

4' di lettura

Nessuno, nemmeno il più acceso sostenitore del governo, può essere certo del fatto che tutte – ma proprio tutte – le misure annunciate ieri dall’esecutivo in materia di sicurezza siano perfette. Non è detto che un approccio molto centrato sul versante penale funzioni; alcune norme sembrano avere un effetto prevalentemente segnaletico (i nemici di Giorgia Meloni diranno: propagandistico); né, in termini puramente liberali, appare convincente l’idea che tocchi allo Stato farsi carico di alcune funzioni del papà e della mamma, quasi esercitando una sorta di supplenza, come alcune misure (quasi tutte poi opportunamente espunte) potevano lasciar pensare in un primo momento. No, lo Stato non può essere un co-genitore, meno che mai un inquietante “genitore tre”: né in questa materia né in altre.

In ogni caso, prima e dopo il Consiglio dei Ministri, è stata lagnosa, stucchevole e direi irricevibile la sequenza di contestazioni da parte della sinistra politica e mediatica. Dopo la visita della Meloni a Caivano, avevano parlato di “passerella”. Dopo che sul posto, qualche giorno dopo, si era verificato un importante blitz delle forze dell’ordine, avevano continuato a parlare di “spot”. Infine, dopo l’imponente operazione di ieri (Roma e Napoli), a sinistra sono rimasti per un momento a bocca chiusa. Ma poi, purtroppo l’hanno subito riaperta, intonando il solito refrain: «Serve più educazione». Certo che serve l’educazione: chi può dubitarne? Ma se qualcuno (sedicenne o sessantunenne cambia poco) ti punta un coltello alla gola, che si fa? Lo si invita a ripassare insieme Pascoli e Carducci? Gli si chiede di recitare il sonetto 66 di Shakespeare? Lo si invita all’ascolto dei Concerti brandeburghesi di Bach? Lo si interpella sulla filmografia di Bergman?
 

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Diciamoci una verità scomoda. È comprensibile, e per molti versi condivisibile, che dinanzi a gravi episodi di criminalità in tanti chiedano che non ci si limiti a risposte esclusivamente legate all’ordine pubblico, e che si evochi la necessità di una serie di altre cose da fare: relative alla scuola, allo sport, e così via. Tutto molto ragionevole. Ma sarebbe un errore culturale e politico se, in nome di questa pur auspicabile panoplia di risposte, si mettesse eccessivamente in secondo piano il cuore del problema: e cioè la questione del contrasto al crimine in sé.
Non si abbia paura di chiamare le cose con il loro nome: serve una lotta senza quartiere sia alla criminalità organizzata sia ai cosiddetti (mai definizione è stata più impropria) “crimini minori”. Penso, specie nelle grandi città, alla piaga dei furti, degli scippi, delle rapine. Serve – su questo – un rigore speciale, un vero e proprio pugno di ferro. E non si tratta solo di una esigenza degli elettori di destra, ma di una richiesta trasversale di una larghissima maggioranza degli italiani. Pensiamo alle aree circostanti le stazioni ferroviarie, ormai trasformate in terra di nessuno. Qualcuno ha il coraggio di dichiararsi sicuro, non solo di sera, nell’entrare o nell’uscire dalla Stazione Centrale di Milano o dalla Stazione Termini di Roma? Pensiamo ancora alle periferie delle maggiori città, con non pochi spazi trasformati in “no go zones”.

In un arco temporale adeguato (alcuni mesi, forse un paio d’anni, non certo alcune settimane), servono segni tangibili di cambiamento, testimonianze visibili dell’apertura di una pagina davvero nuova. So bene che servono soldi: ma occorre una maggiore presenza fisica delle forze dell’ordine. E serve soprattutto un approccio chiaro, quello che, già negli Usa di molti anni fa, era ispirato alla nota teoria delle “finestre rotte”: se lasci incontrastate le violazioni più piccole, fatalmente autorizzerai quelle più grandi, e in qualche misura le incoraggerai.
Tutto questo, ovviamente, non è alternativo alle risposte culturali e sociali. Ma il nocciolo della questione sta qui: i cittadini devono sentire fisicamente e psicologicamente maggior sicurezza. Non c’è motivo di aver timore nel comprendere questa richiesta e nell’impegnarsi a soddisfarla. È su questo terreno – da almeno dieci anni – che la sinistra ha perso credibilità. Perché ha negato il problema (derubricandolo a “percezione”), o perché ha buttato lì accuse di razzismo contro gli italiani (se per caso l’autore del reato era o è uno straniero), o perché si è gingillata con le statistiche, spiegando che – nell’una o nell’altra capitale europea – ci sarebbe uno zero virgola qualcosa in più di probabilità di rimanere vittima di reati simili. È questo vaniloquio che ha condannato Pd e compagni nella mente e nel cuore degli elettori. Giorgia Meloni, invece, sa bene che tanti italiani l’hanno votata per invertire il corso delle cose, e si è mossa di conseguenza. Può darsi che non tutte le sue risposte siano perfette, o che alcune di esse non siano di limpida impronta liberale. Ma la domanda a cui ha cercato di rispondere non è solo giusta: è sacrosanta. Amici e avversari faranno bene a tenerlo presente, se non vogliono sembrare dei marziani.

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