Cosa c’è oltre la rosicata? Elementare, Watson: c’è la crisi isterica, che poi in genere è seguita a ruota da un devastante crollo nervoso. Ecco, in attesa dell’inevitabile fase down, per ora i media organici alla sinistra sono ancora in fase up, di eccitazione un po’ nevrotica, che canalizzano in una raffica di attacchi del tutto sovradimensionati (e in qualche caso irresistibilmente comici) contro il governo di Giorgia Meloni. Viene da chiedersi: ma se dopo un anno stanno già ridotti così, come faranno ad affrontare una legislatura intera all’opposizione? Altro che bonus psicologo.
Repubblica di ieri, ad esempio, per “celebrare” l’anniversario (evidentemente luttuoso) delle elezioni politiche del 25 settembre 2022, ha aggiunto alla foliazione ordinaria un inserto speciale sobriamente titolato «L’anno nero dell’Italia», coinvolgendo nella missione speciale, oltre al direttore Maurizio Molinari, altre 18 firme di punta del giornale. Uno sforzo del genere sarebbe stato immaginabile – penserebbe una persona minimamente equilibrata – per inchiodare Adolf Hitler e il nazismo alle sue responsabilità. E invece no: qui lo squadrone è stato mobilitato contro la Meloni, Francesco Lollobrigida e Andrea Giambruno.
I CERVELLONI
Ma, cari lettori di Libero, non siete autorizzati a ridacchiare. La cosa è tragica, siamo in un’ora drammatica che incalza sul quadrante della storia, ci fanno capire i cervelloni di Rep. Ecco su Twitter Maurizio Crosetti, che contende a Paolo Berizzi il ruolo di acchiappafascisti (inesistenti): «Dopo la tangente sui disperati ci sono soltanto le leggi razziali. I nostri nonni purtroppo non finirono il lavoro, con i fasci». Alé. E quindi, in un colpo solo, abbiamo una maggioranza di centrodestra descritta come pronta a scrivere le nuove leggi razziali, e un lancinante rimpianto a sinistra per non aver generalizzato un trattamento in stile Piazzale Loreto. Così parrebbe di capire, leggendo il soave tweet crosettiano.
Divagazioni social a parte, torniamo all’edizione di ieri di Repubblica. Molinari è lanciatissimo (sente forse la competition con Massimo Giannini, il direttore del giornale cugino La Stampa). E allora – in sequenza – ecco «l’aggressività» della destra, la ricerca del «nemico esterno» e dell’«avversario interno». E poi – in un gran minestrone – i terribili no vax, lo «scetticismo sui cambiamenti climatici», il «nazionalismo pre Ue», «l’esaltazioni di presunte radici etniche italiane», il «gelo verso i diritti Lgbtq+», e perfino, sempre a carico della Meloni, «il silenzio sul centenario della Marcia su Roma». Dopo di che, in ordine sparso, si schiera il resto del plotone di esecuzione. Carlo Bonini, che da decenni fa da majorette rispetto al toga party giustizialista, ora improvvisamente vede una «bulimia di reati». Simonetta Fiori segnala nientemeno che una «sfida sovranista» alla Costituzione. Obiettivo?
«Allontanare la cultura degli italiani dai valori della Carta».
Marco Belpoliti, sulle orme di Lombroso, ci descrive il «linguaggio del corpo di una mamma al comando». Il partigiano Stefano Cappellini vede già una «Storia riscritta per nascondere il fascismo». Michele Bocci e Luca Pagni ci informano che «dal clima ai vaccini» al potere c’è «il negazionismo». Poi arriva Natalia Aspesi che fa irruzione nella camera da letto di casa Meloni e apre l’inchiesta sullo stato civile della premier: «Poi ha anche una piccina e suo padre, quel bell’uomo, Giorgia non l’ha sposato. A parte Dio che lei nomina spesso (...) c’è questo mistero: una graziosa signora che non si sposa, proprio per non rendere definitivo il matrimonio con un bel giovane di cui non si conosce il futuro». Così, in scioltezza: immaginate se qualcuno avesse fatto considerazioni del genere su una personalità di sinistra, in particolare su una donna. Ma tanto alla Meloni si può dire di tutto, no? Gran finale con Michele Serra: «Smettiamola di chiamarla destra. È molto peggio». E che cos’è? Un impasto – apprendiamo di fascismo e di qualcosa di nuovo, «impensabile senza i social che organizzano l’odio in forme prima inimmaginabili, che vomitano su chiunque sia sospettabile di avercela fatta».
Sulla Stampa, invece, scende in campo direttamente Massimo Giannini. E i fuochi d’artificio paiono non finire mai. Non va bene il comunicato di Palazzo Chigi su Napolitano («trasuda gelo puro»). Fanno orrore i commenti dei giornali di destra («gli squadristi in redazione»). E mentre su Berlusconi si poteva dire di tutto, in vita e post mortem, per Napolitano si può solo agitare l’aspersorio. Se invece qualcuno osa ricordare la parabola comunista dell’ex presidente, Giannini sbrocca e spara a palle incatenate: «Nemmeno davanti a questa bara la destra italiana trova il coraggio e la voglia di compiere l’ultimo passo verso una compiuta “normalità” repubblicana». Ohibò: e qui Giannini usa “normalità” un po’ come il generale Vannacci, ma – per carità – non diteglielo, se no succede un’iradiddio.
PARTIGIANI DELLA ZTL
Siamo alla fine – in tutti i sensi – di questo viaggio nello psicodramma dem. Resta tuttavia un interrogativo. Se le cose sono così gravi, se davvero siamo all’anno primo dell’Era Meloni, di un nuovo regime fascistoide, come mai questi signori restano tutti dislocati tra Roma Centro, Roma Parioli, Milano Zona 1, Torino Crocetta, con brevi pause tra Capalbio e Cortina d’Ampezzo? Se il pericolo incombe, c’è da correre subito in montagna a organizzare la nuova Resistenza, che già potrà avvalersi, come staffetta partigiana, di Luciana Littizzetto che – tra mille pericoli – si muove eroicamente tra Tu si que vales a Canale 5 e gli studi Discovery presidiati dal comandante Fabio Fazio. Che dire? Dai fratelli Carlo e Nello Rosselli siamo passati a Marco Furfaro e Francesco Boccia, dai capi partigiani a Jasmine Cristallo, dai confinati di Ventotene al caposardina Mattia Santori. Per ora è tutto.