Oddio, c’è il debito. Si salvi chi può. Visto che lo spread, malgrado gli allarmi sparati a tutta pagina dalla stampa, progressista e no, continua a sonnecchiare su livelli assolutamente non preoccupanti e comunque molto inferiori a quelli raggiunti con Mario Draghi sulla tolda di comando, ora il problema è diventato l’indebitamento. Sarà lui a spaventare i mercati, a terrorizzare gli investitori, a smascherare i trucchetti contabili del centrodestra, a far precipitare l’Italia nel baratro.
«Manovra, incubo debito», titolava ieri la Stampa, facendosi portavoce dello sgomento e dei timori che circolano un po’ ovunque tra chi ci capisce di economia e che rimbalzano qua e la sui quotidiani, persino su quelli “seri” come il Corsera («Il problema del debito», si legge nell’occhiello dell’analisi in prima pagina di Federico Fubini). Che dire? Col debito mica si scherza. È un guaio per le generazioni future e per quelle presenti, che con il costo del denaro pompato dai rialzi della Bce dovranno farsi carico di più oneri per rifinanziarlo, ed è anche uno degli indicatori più sensibili su cui si valuta la credibilità di un Paese. È su quest’ultimo terreno che il governo si appresta ad affrontare il terribile, come lo chiama Massimo Giannini, «autunno del rating», che è una specie di film dell’orrore in cui l’esecutivo sarà chiamato a superare drammatiche prove che metteranno a rischio la sua sopravvivenza. Per non farsi trovare impreparati, o magari espatriare prima del cataclisma, il direttore della Stampa ci snocciola anche l’agghiacciante sequenza delle date in cui si verificherà il redde rationem.
NOVEMBRE NERO
Si parte con il giudizio di S&P il 20 ottobre e con quello di Dbrs il 27 ottobre. E poi si passa ad una fase ancora più cupa e tenebrosa, perché si entra nel famigerato «novembre nero». Quello in cui non solo arriveranno i giudizi di Moody’s (il 10) e di Fitch (il 17), ma anche il terrificante «verdetto» della Commissione europea. Insomma, roba da far tremare le vene ai polsi, non adatta ai deboli di cuore. Resta solo da capire dov’erano Giannini e tutti gli altri espertoni di finanza pubblica fino all’altro ieri. Già, perché non è che il debito sia magicamente e improvvisamente esploso con la Nadef pubblicata nei giorni scorsi. Anzi, se proprio vogliamo essere pignoli il quadro programmatico prevede un livello di debito inferiore a quello stimato nel Def dello scorso aprile, quando nessuno si è stracciato le vesti profetizzando l’arrivo dei cavalieri dell’apocalisse travestiti da analisti delle agenzie di rating.
Ed è curioso che solo oggisi scatenino attacchi di panico, perché era chiaro fin dall’inizio del 2020 dove saremmo arrivati. Lo scoppio della pandemia ha fatto saltare le regole Ue e il costo del denaro è al livello più basso della storia? E allora, che importa, strafoghiamoci di spesa pubblica, come se non ci fosse un domani. Il domani, però, è arrivato. E fingere di non aver partecipato alla festa non cambia la realtà dei fatti. E neanche quella dei numeri.
Al di là delle polemiche e delle diverse valutazioni sugli effetti della bomba a grappolo rappresentata dal superbonus, che continuerà a deflagrare per molti anni a venire, provocando squarci nei conti pubblici, le serie storiche di Bankitalia parlano chiaro. Alla fine del 2019 il debito pubblico era di 2.410 miliardi. Alla fine del 2022 è diventato di 2.756. In mezzo ci sono 346 miliardi di spese fatte in deficit.
Altro che i 23 miliardi spalmati su tre anni che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha previsto nella Nadef. Certo, si dirà, c’era una delle epidemie più letali e devastanti del dopoguerra, poi è esplosa la guerra in Ucraina, si è scatenata la crisi energetica, i prezzi si sono impennati. Tutto vero, anche se il carovita, purtroppo, è stato provocato anche dalla spesa allegra con i tassi a zero. Ma il problema è: quando Giuseppe Conte e Mario Draghi hanno accumulato, a torto o a ragione, quasi 350 miliardi di nuovo debito, i partiti che li sostenevano e tutti coloro che oggitemono per l’equilibrio dei conti pubblici pensavano forse che, finito il rimbalzo del Pile reintrodotte le regole Ue sui parametri di bilancio, sarebbe arrivato il mago Merlino a far quadrare i conti?
IL DITINO ALZATO
E tutti coloro che negli ultimi mesi hanno alzato il ditino contro chi si è permesso di avanzare dubbi sulle strategie di politica monetaria della Bce pensavano forse che la raffica forsennata di dieci rialzi dei tassi di interesse non avrebbero avuto impatto sul costo di rifinanziamento del debito pubblico? No, perché oggi leggiamo preoccupanti analisi sul fatto che la spesa degli interessi pagati sul rosso di bilancio raddoppierà dai 57 miliardi nel 2020 ai 103 miliardi nel 2026. E dunque? L’allarme lanciato pochi giorni fa da Giorgetti sui costi del debito è stato considerato un pietoso alibi di chi vuole mettere le mani avanti, peraltro scaricando le responsabilità sulla Lagarde. Ora ci viene spiegato che sarà proprio il costo del debito l’ostacolo principale da superare. La situazione è difficile? Probabilmente meno di quello che si vuol far credere e di certo non da oggi. In ogni caso, fingere stupore, dopo aver lasciato tutto sottosopra, è un po’ quello che fanno i bambini quando i genitori rientrano a casa.