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Fausto Carioti: il Pd prima stravolge la Costituzione e poi grida contro le riforme altrui

di Fausto Carioti domenica 5 novembre 2023

3' di lettura

La «vocazione maggioritaria» del Pd, l’ambizione di essere il primo partito d’Italia, che vince le elezioni e governa il Paese grazie ai voti, è un ricordo lontano. Nella XIX legislatura le urne stanno a ciò che resta dei progressisti italiani come l’aglio sta ai vampiri. E la Costituzione, nella formulazione attuale, è l’ultima speranza che hanno per entrare a palazzo Chigi senza passare dai seggi. Si capisce, quindi, l’affetto morboso.

Le barricate alzate contro la riforma (sotto certi aspetti sin troppo blanda) annunciata dal governo. L’accusa di terrorismo contro le istituzioni urlata ieri in prima pagina da Repubblica: «Assalto alla Costituzione», manco fosse l’elezione diretta del capo dello Stato, che era prevista nel programma elettorale del centrodestra e lì è rimasta. Il terrore del Pd per quel premierato che aveva votato nella bozza Violante del 2007 e difeso sino al 2015, e che adesso, servito in una versione annacquata, Elly Schlein bolla come «pericoloso». Questo e tutto quello che vedremo nei prossimi mesi si spiega con la disperata necessità di conservare lo status quo e i privilegi che garantisce.

Ogni grande battaglia ha un simbolo e questa non fa eccezione. Il sogno dei nuovi resistenti era arruolare Sergio Mattarella, però il presidente della repubblica se ne è guardato bene. Ha fatto sapere subito - al destra-centro, ma soprattutto ai “suoi” - che non scenderà in campo e osserverà la partita dagli spalti, rispettoso del confine istituzionale che proprio la Costituzione traccia tra lui e il parlamento. Cosa egli pensi della riforma lo si può intuire, ma se lo tiene per sé e non sarà lui ad opporsi.

Scendendo qualche gradino, il ruolo di leader morale della resistenza è stato proposto allora all’ottantacinquenne Giuliano Amato, che non si è fatto pregare (così quelli della maggioranza imparano ad offrirgli altri incarichi: nessuna buona azione deve restare impunita).

L’UOMO GIUSTO
Amato è la figura ideale. Presidenza della repubblica a parte (ops), ha ricoperto ogni carica apicale prevista dall’ordinamento italiano, purché rigorosamente non elettiva, inclusa, due volte, quella di capo del governo. Ieri, intervistato da Repubblica, ha denunciato che il primo dei mille difetti che ha la riforma è quello di infliggere un «grave vulnus» all’inquilino del Quirinale, il quale, messo di fronte ad un premier eletto dal popolo, diventerebbe «un palloncino sgonfiato».

È lo stesso concetto sostenuto sulla Stampa da Vladimiro Zagrebelsky e subito ripreso dalla segretaria del Pd: «Oggi ci sono due figure che sono entrambe espressioni del parlamento, ma se una viene eletta direttamente, è chiaro che questo indebolisce il ruolo e la figura di garanzia del presidente della repubblica». A suo modo, una spiegazione perfetta: per impedire che il problema sorga, bisogna che gli italiani non scelgano chili governa. Che poi è il modo in cui la sinistra è abituata a piazzare i suoi a palazzo Chigi: Paolo Gentiloni, Matteo Renzi, Enrico Letta, Massimo D’Alema e lo stesso Amato, oltre al colore della maglietta, hanno in comune che sono arrivati lì senza chiedere il permesso agli elettori.

Dicevano cose molto diverse, quando quelli forti erano loro. Nel 2007, a ruoli invertiti rispetto ad oggi (l’Unione di Romano Prodi vincitrice delle elezioni col 47% dei voti, il professore bolognese presidente del consiglio), i DsPd spingevano per una riforma della Costituzione che avrebbe dato al premier la facoltà di nominare e revocare i ministri in cogestione col capo dello Stato: un potere che il presidente del consiglio, nel testo appena presentato da Giorgia Meloni, non ha. E nessuno, su Repubblica e La Stampa, urlava al colpo di Stato. È che a sinistra, e non da oggi, il concetto della sacralità della Carta funziona a gettone. 

Nel 2001, per rincorrere la Lega Nord, l’Ulivo riscrisse il Titolo V della seconda parte della Costituzione, che regola i confini dei poteri di Regioni, Province e Comuni. E lo fece in maniera così dilettantesca da sovrapporre le competenze delle Regioni con quelle dello Stato centrale e provocare, tra il 2001 e il 2018, oltre 1.800 ricorsi davanti alla Consulta. Quel testo fu approvato nel marzo del 2001, quando a palazzo Chigi c’era il fine giurista Amato. Uno con meno autostima e più pudore di lui si sarebbe imbarazzato a tornare su certi argomenti: lui si è fatto nove anni da giudice costituzionale e oggi accusa gli altri di non saper maneggiare le riforme istituzionali. Un simbolo, appunto.

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