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Daniele Capezzone: i nostri ragazzi rovinati dalla cultura degli alibi

di Daniele Capezzone venerdì 1 dicembre 2023

5' di lettura

Volendo scherzare, si potrebbe parlare di “baby -capre” più che di “baby -gang”. Ma non c’è proprio niente da ridere. In una scuola media inferiore a Badoere, in provincia di Treviso, avendo una professoressa osato- guarda un po’ - mettere una nota, la malcapitata è stata oggetto di una specie di spedizione punitiva da parte dei suoi piccoli alunni (età: 11-13 anni), con tanto di accerchiamento e minacce («Tela faremo pagare»). E siccome toccare il fondo è impossibile, nel senso che si può sempre continuare a scavare e finire ancora più in basso, quando la nostra cronista ha interpellato il preside, si è sentita rispondere: «Sono solo dei ragazzini». Adesso, per completare il quadretto, mancherebbe soltanto la vibrante protesta dei genitori dei baby-bulli a difesa dei loro pargoli: ma mi fermo qui nel timore che qualcuno prenda la mia sconfortata chiosa per un suggerimento.

Ricapitolando: un anno fa a Rovigo, in un istituto tecnico, ci fu l’episodio degli studenti che spararono contro una professoressa usando una pistola ad aria compressa. Stavolta non ci sono stati spari né pallini, ma in compenso si è ulteriormente abbassata l’asticella dell’età del primo atto teppistico. Non è da Libero mettersi a fare paternali o trombonate, ma tutti capiamo che questa storia apparentemente piccola è sintomo di qualcosa di devastante. Cosa possono avere in testa dei ragazzini per comportarsi così? Quale scarsa considerazione devono evidentemente nutrire per i loro insegnanti? Che idea devono essersi fatti dell’inettitudine di alcuni degli adulti che li circondano per pensare di poterli trattare in questo modo?

IN ALTRE EPOCHE
In altri tempi la cosa non sarebbe finita bene per i bulletti: a scuola sarebbe scattata - come minimo - una mega sospensione, mentre a casa sarebbero volati subito un paio di schiaffi con susseguente stop alle uscite nei fine settimana da uno a tre mesi. Il tutto con una vera e propria gara di severità tra papà e mamma: chi in veste da pm e chi da giudice, entrambi inflessibili. In altri tempi, appunto.

Mettiamola così: il finale che avrà questa storiaccia sarà un test sia per la scuola che per i genitori. Se non succederà nulla, vorrà dire che alla fine avranno avuto ragione i bulli (anzi, le capre) a comportarsi in quel modo. Da qui, ovviamente, non ci limitiamo a chiedere sacrosante e indispensabili punizioni. Il punto è far capire a tutti (bimbi, adolescenti, ragazzi) che non si va a scuola per fare i fenomeni (pure violenti), ma per migliorarsi e per affrontare prove non semplici. Il compito di matematica o alle superiori - la versione di latino o di greco rappresentano un momento di organizzazione mentale, e soprattutto sono una cosa difficile, un test vero, un esercizio impegnativo. Se un ragazzino si sottrae, se vuole fare quello che gli pare, se insegue la professoressa per bullizzarla, noi che facciamo? Gli diciamo di sì e gli sottoponiamo solo cose facili? Gli proponiamo un selfie e un balletto su Tik Tok?

LA LEZIONE DI ADLER
Mi torna alla mente un punto essenziale delle tesi di Alfred Adler. Adler è stato - ai primi del Novecento - uno degli allievi eterodossi di Freud, e nella sua opera principale (La psicologia individuale) spiega come buona parte delle nevrosi nascano da complessi di inferiorità più o meno efficacemente mascherati. In modo consapevole o no, l’individuo è indotto a cercare di “nascondere”, “mascherare”, “occultare” il proprio sentimento di inadeguatezza. In qualche caso emblematico, l’operazione riesce talmente bene da “rovesciarsi” in modo trionfale: Napoleone piccolo di statura ma grande imperatore, Demostene balbuziente eppure grande oratore, eccetera. Ma nella stragrande maggioranza dei casi, purtroppo, le cose vanno diversamente. Ecco perché (anche qui sintetizzo con parole mie) per Adler diventa cruciale l’educazione dei ragazzi. Occorre insegnar loro a non scansare le difficoltà, a misurarsi sempre con gli ostacoli, a non elaborare strategie di aggiramento.

Ecco, un secolo dopo, è come se questa tendenza individuale fosse divenuto il tratto e la cifra di un’intera epoca. Forse è il caso di chiederselo: che succede se un’intera società decide di scansare le cose difficili, di sottrarsi alle prove più impegnative, e anzi di accettare un greve e rozzo ribellismo già a 12 anni? Non si tratta - qui - di “processare” nessuno: si tratta di capire. Il trionfo degli strumenti “visual” (prima la tv, poi il pc, ora lo smartphone) è sotto i nostri occhi, e- inevitabilmente- porta alla velocità, alla superficialità, a tempi ristrettissimi di attenzione. Secondo le ultime ricerche, il lettore medio dedica non più di 10-12 secondi (ripeto 10-12 secondi!) alla lettura di qualunque contenuto su Internet: a mala pena guarda titolo e sottotitolo. E se a questo aggiungiamo genitori impalpabili, incapaci di dire una parola che pesi, che incida, il disastro diventa quasi irrecuperabile. Non si pretende - per carità - che i ragazzi siano “follower” dei genitori. Ma ancora peggiore è la situazione in cui siano i genitori a ridursi a “follower” dei ragazzini per inseguire il loro “like”. Figurarsi il compito titanico che grava sugli insegnanti: quelli incapaci o lavativi ovviamente se ne fregheranno, ma quelli bravi e attrezzati si ritrovano sulle spalle un’autentica missione impossibile.

BASTA SFANGARLA?
Voglio articolare ancora il tema. C’è una curiosa schizofrenia nelle nostre famiglie. Quando si tratta dell’attività sportiva, riteniamo normale e logico allenare i ragazzi, spingerli a dare il meglio di sé: e, se viene fuori che il ragazzo è atleticamente dotato, riteniamo altrettanto ragionevole che si alleni anche di più. Quando invece si tratta dello studio, scatta una logica opposta. Tranne rare eccezioni, quello che i genitori chiedono è portare a casa un voto accettabile, non avere troppi problemi, “sfangarla”. E moltissimi (all’opposto di quanto accade per l’attività sportiva) hanno paura di comportarsi da genitori troppo esigenti, “pushy”, oppressivi. Per anni, nel mondo anglosassone, c’è stato un gran dibattito sulle cosiddette “tiger-mothers”, le mamme tigri, le mamme che pretendono molto dai loro figli, in qualche caso minacciando di privarli di giochi e divertimenti se prima non c’è stato un buon adempimento dei doveri scolastici, già a 12-13 anni. 

Senza ovviamente esagerare, a me pare che le “tiger-mothers” e anche i “papa-tigrotti” vadano difesi e - se possibile - incoraggiati. Quale sarebbe, infatti, l’alternativa? Accettare sempre il compromesso? Giustificare la mediocrità? Imparare a 12 anni a rifugiarsi dietro alibi e scuse? Ecco perché la storia di Badoere va seguita fino in fondo. Serve una punizione: questo è evidente. Ma serve pure un cambio di paradigma: una scuola più difficile, test più impegnativi, giudizi severi. Se vogliamo che i ragazzi crescano: altrimenti, possiamo proseguire così e darci appuntamento alla prossima bravata.

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