Non è solo “un Paese di sonnambuli”, come hanno titolato con riflesso pavloviano tutte le agenzie e i siti di informazione. Il 57esimo Rapporto del Censis sulla situazione sociale italiana va indagato, va scavato, va declinato, altrimenti rimane uno slogan pigro che aggrava la sonnolenza collettiva, giornalistica in primis. Per tentare un’interpretazione non bozzettistica, la cosa migliore è muovere dalla descrizione che apre il Rapporto stesso: “La società italiana sembra affetta da un sonnambulismo diffuso, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali, di lungo periodo, dagli effetti potenzialmente funesti”.
Non è un appisolamento generico, quello fotografato dal Censis, ma ben più profondamente un sonno della ragione, della facoltà umana di stanare il futuro e attrezzarsi nel presente, e come ogni sonno di questo tipo genera mostri. Pare un quadro di Goya, l’Italia che esce dal Rapporto, proviamo a focalizzarne i dettagli.
Lavoro Qui è dove il sonno rischia di sprofondare nel coma (poco) vigile. Attenzione, non nel senso dell’oggettiva congiuntura macro-economica, anzi: nel primo semestre del 2023 si sono registrati 23.499.000 occupati, il dato più alto di sempre. No, il problema è tutto culturale, riguarda l’approccio soggettivo degli italiani. Per farla drammaticamente breve: il lavoro non è più un valore di riferimento.
Non si spiega altrimenti, infatti, come di fronte al record assoluto dell’occupazione, siano diminuite rispetto al primo trimestre dell’anno le ore lavorate in tutti i settori strategici della produzione. Mettendoli in climax ascendente: -1,1% nell’industria, -1,9% nelle costruzioni, addirittura -3% nell’agricoltura. Considerando l’intera economia nazionale, siamo comunque a un -0,5%. La sensazione empirica è avvalorata dalle percentuali che scandagliano le priorità esistenziali degli italiani. Per il 62,7% il lavoro non è più centrale nella vita delle persone. Il 74,8% dei lavoratori dichiara di non avere voglia di lavorare di più per migliorare il proprio benessere, perché “non ha intenzione di farsi guidare come in passato dal consumismo” (ovvero da quello di stile di vita che dalle macerie della guerra ci traghettò tra le prime dieci potenze industriali). Per l’87,3% degli occupati la scelta di fare del lavoro il centro della propria vita sarebbe un errore. Il sugo della storia è che «il lavoro sembra aver perso il suo significato più profondo come riferimento identitario».
A questo stravolgimento antropologico ha contribuito senza dubbio la stagione del Covid, certo nella sua contingenza inevitabile, ma anche nell’arbitrio delle scelte politiche. Gestire la pandemia con l’ottica unilaterale (a tratti paranoica) del chiusurismo a oltranza, del lockdown come religione di Stato, ha certamente edulcorato l’autodeterminazione individuale attraverso il lavoro come baricentro, valoriale e quotidiano, della società. L’esasperazione della politica dei sussidi, il reddito di cittadinanza come ideologia prima che come provvedimento, ha ulteriormente aggravato il quadro. Ma si aggira qui anche un mutamento filosofico di lungo respiro: il venir meno di un alfabeto «produttivista», a lungo trasversale nelle culture politiche del Paese, in favore di miti ossimorici come la “decrescita felice”. Per esemplificare: i vecchi comunisti in ogni caso esaltavano la fabbrica come luogo della produzione, i giovani gretini la additano come ricettacolo di emissioni. Il declinismo, emotivo ed economico, sembra aver scalzato l’attivismo.
Clima e migranti A dimostrazione di quanto sopra, l’84% degli italiani teme «il clima impazzito, sempre più incontrollabile e ostile». Chi però volesse ricavarne una conclusione confortante per le truppe ecoapocalittiche che si annidano a sinistra stia attento: subito a ruota, nella scala delle minacce percepite, il 75.4% del campione indica «la pressione di flussi migratori sempre più intensi» che «non sapremo gestire». Non è partitica, la bussola utile per orientarsi nel Rapporto, piuttosto è psicanalitica nel senso della psicologia di massa: la costante è il fossato tra le paure dell’inconscio collettivo e la loro mancata elaborazione, l’assenza di chiavi strategiche per affrontarle. Il sonno della ragione, appunto.
Globalizzazione Un’altra percentuale che corrisponde a una ferita della contemporaneità: il 69,3% dei connazionali è convinto che la globalizzazione «ha portato all’Italia più danni che benefici». Qui c’è tutto lo scollamento tra il sentire popolare e l’ultradecennale narrazione delle élite sulle magnifiche sorti e progressive del mondo globalizzato. Una bella utopia nei circoli intellettuali transatlantici, che per le economie d’Occidente ha significato lo sdoganamento della concorrenza sleale con nazioni che hanno un costo del lavoro infinitesimo (anche perché non di rado praticano lo schiavismo di fatto), Cina in testa. Il risultato è che sono saltate intere filiere produttive, specie in Paesi dal capitalismo fondamentalmente famigliare come il nostro. Significativo che il No a questa globalizzazione acritica balzi addirittura al 72% nella fascia tra i 35 e i 64 anni, quella più attiva, che si scontra giornalmente con i suoi guasti strutturali.
Crollo demografico Non sono dati, è un’ecatombe. Nel 2050 si stima che l’Italia avrà perso 4,5 milioni di residenti (come se scomparissero dalla mappa Milano e Roma) e avrà quasi 8 milioni di persone in meno in età lavorativa. Questo calo ovviamente si rischia di ripercuotere sulla produttività del sistema, ma anche sulla tenuta del welfare: la spesa sanitaria, per stare all’esempio principe, schizzerebbe a 177 miliardi di euro, rispetto agli attuali 131. Il risultato è che il 73,8% degli italiani teme che non ci saranno risorse sufficienti per pagare le pensioni, e il 69,2% pensa che la sanità pubblica non riuscirà a garantire cure per tutti. Insomma, la morale del Censis è che gli italiani siano «ciechi dinanzi ai cupi presagi», non scovino più in se stessi l’antidoto razionale per smentirli e abbiano abdicato al culto (che era allo stesso tempo imprenditoriale e operaio) del lavoro, nonostante il lavoro ci sia in abbondanza. Siamo ancora in tempo a dimostrare che è un eccesso di pessimismo.