Trump. Evocarne il nome produce incubi e deliri, disperazione e gioia. Vinse la corsa alla Casa Bianca nel 2016 (dopo due mandati di Barack Obama, qualcosa vorrà pur dire, cari storici) seminando il lutto nell’establishment che festeggiava la vittoria di Hillary Clinton. La faccenda elettorale finì con una scena indimenticabile: il funerale di Philadelphia, Hillary in crisi di nervi che non fa il discorso e affida un balbettìo sul palco a John Podesta, l’aristo-finanza globale con il morale sotto i tacchi, le previsioni (completamente sbagliate, ma si perdona tutto) di Paul Krugman, il premio nobel per l’economia in servizio permanente effettivo sul New York Times, sull’imminente crollo di Wall Street (che poi con Trump ha polverizzato tutti i record), l’Homo Davos che per scorno tributò applausi a quel sincero democratico Xi Jinping (e questo bastò a squalificare per sempre il club del jet -no -green sulle nevi svizzere) mentre lui, The Donald, diceva una cosa semplice: «America is open for business».
L’uomo del Maga, capellino rosso in testa, era in arrivo su una mietitrebbia dell’Ohio, novembre 2016, e chi se lo dimentica. Erano i tempi in cui gli intelligenti a prescindere dopo aver sbagliato tutte le previsioni, andavano in tv con la faccia sconvolta a spiegare “perché Trump ha vinto”, l’effetto tragicomico del giornalismo in ciclostile. Quattro anni dopo, Joe Biden vinse l’elezione più pazza della storia americana, con la nazione in lockdown, il voto postale di massa e i tribunali che cambiavano le regole dell’elezione a seconda dei sondaggi. Vinse Biden, in condizioni irripetibili, e da quel momento tutta la storia americana, lo scontro di civiltà tra l’America rossa dei repubblicani e l’Onda Blu metropolitana dei democratici ha accelerato.
Ricordo una Washington spettrale dopo l’insurrezione al Campidoglio del 6 gennaio, la capitale blindata, negozi e ristoranti chiusi, l’albergo dove alloggiavo era diventato una base dell’esercito americano. Qualche giorno dopo, presi un volo per Miami, volevo raccontare la vita in quei giorni in uno Stato repubblicano: trovai tutto aperto, il governatore della Florida, Ron DeSantis (oggi deludente candidato alle primarie contro Trump), aveva gestito con la giusta prudenza i lockdown per non distruggere l’economia (cosa puntualmente avvenuta negli Stati democratici, come la California). Andai a Mar-a-Lago, la residenza di Trump, parlai con i suoi amici, finanziatori, editori, elettori, bianchi, neri, ispanici, quella “Red Nation” che i media europei, la classe giornalistica in progress, non sa raccontare perché accecata dal pregiudizio. Capii che la Seconda Guerra Civile americana era appena cominciata, che Joe Biden non aveva interrotto, ma semplicemente deviato per un po’ un ciclo lungo della politica americana: protezionista, isolazionista, non disposto a mandare i suoi figli migliori a morire per Paesi lontani dalla mente delle famiglie americane, pronto a sfidare l’Europa con i dazi e piani anti-inflazione che sono una minaccia diretta alla manifattura del Vecchio Continente, un grande produttore di petrolio e esportatore netto di gas che guarda il Medio Oriente come un problema troppo lontano dal lattaio del Wisconsin, dall’operaio della fabbrica d’auto di Toledo, nella Rust Belt osservano gli sceicchi e pensano solo al prezzo della benzina alla pompa, la geopolitica per “l’uomo dimenticato” che fu forgiato in una campagna elettorale del democratico Franklin Delano Roosevelt, è un problema che riguarda Washington, quella che non a caso Trump ha sempre chiamato “the swamp”, la palude.
BATTAGLIA CULTURALE
In quella palude i democratici ci sono rimasti, con l’aggravante della politica folle della cancel culture, la lotta a colpi di sociologia, la demonizzazione dell’uomo bianco, del maschio, il Black Lives Matter diventato arma politica per forgiare un’impossibile dittatura delle minoranze. Una guerra civile che ha come epicentro le università. Qui il trumpismo si è trasformato in una potente battaglia culturale, dove le surreali procedure introdotte dai progressisti americani per favorire (esatto, favorire) l’ingresso pilotato di esponenti delle minoranze (che automaticamente esclude i meritevoli che non hanno idee e origini etniche corrispondenti ai criteri “woke”) è diventato un boomerang, l’anti-semistismo dilagante dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre è un problema sotto gli occhi di tutto il mondo (e dei donatori), le università dell’establishment sono finite nel vortice che hanno alimentato, una discesa nel Maelstrom che sta facendo colare a picco tutti gli yacht d’alto bordo dell’élite, fino a Harvard dove la presidente, Claudine Gay, donna, nera, si è dimessa accusata (giustamente) di plagio, incapace di arginare l’odio contro gli studenti ebrei (bastava ascoltare le sue bizzarre tesi sulle belve di Hamas per capire chi era), totalmente “unfit”, inadatta ma prontissima a frignare per trasformare un suo problema in un attacco ai diritti. Questa America non potrà vincere contro la rivolta dei repubblicani di cui Trump è solo la punta dell’iceberg, un risultato, non la causa.
Il phonato di Manhattan è ripartito da dove aveva lasciato, mentre i giudici provano a sbarrargli la strada (aumentando la sua popolarità), lui guida il popolo del Maga e corre a una distanza siderale rispetto agli altri candidati. Biden è al minimo nei sondaggi, un presidente anziano al quale il Pentagono ha addirittura nascosto il ricovero in ospedale del segretario della Difesa, un fatto grave che racconta la confusione che regna nell’amministrazione. L’Europa assiste a questa riedizione del duello del 2020 con lo sguardo di un sonnambulo. Gli editorialisti à la page avevano raccontato alle presunte classi colte che il populismo era finito e The Donald era archiviato. Quattro anni dopo, eccoci qua: Trump è il favorito nella corsa alla Casa Bianca e Make America Great Again è un programma anche per i democratici. Se tutto va bene, siamo trumpizzati.