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Mario Sechi: bene premier e Mattarella, Repubblica la nota stonata nel Giorno della Memoria

di Mario Sechi domenica 28 gennaio 2024

4' di lettura

Il Presidente della Repubblica ha celebrato il Giorno della Memoria al Quirinale con un discorso alto, prendendo le mosse dalle parole di Primo Levi sulla «storia della deportazione e dei campi di concentramento» che «non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: ne rappresenta il fondamento condotto all’estremo, oltre ogni limite della legge morale che è incisa nella coscienza umana». Sergio Mattarella ha ricordato «l’uomo del Novecento» che «mai avrebbe pensato di trovarsi di fronte a un tornante così tragico» - il terribile “Secolo Breve” raccontato dallo storico marxista Eric Hobsbawm - e ha fatto un passaggio doveroso sulla nostra memoria: «Non si deve mai dimenticare che il nostro Paese, l’Italia, adottò durante il fascismo – in un clima di complessiva indifferenza - le ignobili leggi razziste: il capitolo iniziale del terribile libro dello sterminio; e che gli appartenenti alla Repubblica di Salò collaborarono attivamente alla cattura, alla deportazione e persino alle stragi degli ebrei».

L’intervento del Capo dello Stato è un puntuale inquadramento storico, una spinta al lavoro delle istituzioni nel presente, perché tutto questo non accada mai più. Sappiamo tutti che si tratta di un rischio concreto. Il feroce attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023, la caccia agli ebrei scatenata dai terroristi, la risposta politica e militare di Israele a Gaza, gli atti di antisemitismo che si moltiplicano in tutto l’Occidente, lo scenario di guerra estesa in Medio Oriente, sollecitano un impegno intenso da parte delle istituzioni. Giorgia Meloni ha ricordato le azioni del governo contro l’antisemitismo e in particolare la legge che istituisce il Museo della Shoah affinché «la malvagità del disegno criminale nazifascista e la vergogna delle leggi razziali del 1938 non cadano nell’oblio». Il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, al Memoriale della Shoah a Milano, con la senatrice a vita Liliana Segre, ha detto che «ciò che è avvenuto è stato senza ombra di dubbio il male assoluto». Il Presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha ribadito che «il Giorno della Memoria richiama le Istituzioni a non dimenticare mai l’orrore della ferocia nazifascista». 

Il premier, i presidenti dei due rami del Parlamento, hanno pronunciato parole inequivocabili, in piena sintonia con il discorso del Presidente Mattarella. *** In questo scenario di armonia istituzionale, in una giornata carica di significati profondi, è comparsa una nota stonata. Tra gli archi, irrompe il suono di un trombone: è quello di Massimo Giannini su Repubblica. Il quotidiano controllato da Exor, la holding di partecipazioni della famiglia Agnelli, dà una lettura del discorso di Mattarella nel Giorno della Memoria che sposta il baricentro dell’intervento del Presidente, gli attribuisce altre intenzioni, trasforma la figura dell’arbitro in giocatore. Ancora una volta, si danno letture distorte, si anticipano disegni che Mattarella non ha, perché il Presidente conosce e interpreta il suo ruolo meglio dei suoi esegeti. Sapendo di camminare sulle uova, Giannini premette che «nessuno vuol tirare per la giacchetta il Capo dello Stato», poi non solo rompe le uova, ma si attacca goffamente all’abito di Mattarella, diventa un rabdomante e afferma che il discorso del Presidente sull’Olocausto «porta più lontano e più vicino».

Dove, di grazia? In un batter d’occhio la penna tuonante di Giannini arriva «ai pieni poteri» e da lì sfreccia in un viaggio nell’Apocalisse: «Parti dal Bundestag, puoi arrivare ad Auschwitz». La penna va al Massimo e disegna curve iperboliche. Non essendo sufficiente allo scopo aver già evocato impropriamente il discorso di Mattarella sull’Olocausto, Giannini ci dà dentro e ripesca il discorso del Capo dello Stato per gli auguri alle Alte Cariche, il 21 dicembre scorso, per trasformarlo maldestramente in un manifesto contro la maggioranza. Non una, ma due forzature. Naturalmente niente di tutto questo può essere attribuito al Capo dello Stato, ma quando sei in trance agonistica, perdi di vista tutto quello che ti sta intorno. Giannini pur evocando «le buonanime di Benito e Bettino» e lumeggiando «una terra di cittadini infelici e infedeli alla democrazia», ha intuito che la parola “fascismo” è leggermente anacronistica, dunque ha bisogno di un termine nuovo che serve a rigenerare il residuato bellico dell’allarme democratico e trova il suo tamburo di guerra nella parola “capocrazia”. 

La prende dal titolo di un libro del costituzionalista Michele Ainis che ha in copertina questo sottotitolo programmatico: «Se il presidenzialismo ci manderà all’inferno». Illuminato ogni neurone dal fulmine di Zeus, il giornalista imbastisce una sfida dialettica dell’Antica Grecia e veste i panni del sofista: il Male è il Capo, il Capo non può essere il Bene, dunque non può esserci un Capo. Esattamente quello che è accaduto al Partito democratico. E i risultati si vedono, 11 segretari dal 2007 a oggi. Il bersaglio di Repubblica è la riforma costituzionale del centrodestra, il premierato dipinto come un progetto eversivo, la deriva autoritaria all’orizzonte, lo tsunami del plebiscito. Il piccolo establishment italiano è allergico alla democrazia, detesta le forze popolari, quando vede emergere un leader parte come un ariete per abbatterlo. Un mandarinato inamovibile, grazie a governi deboli e incapaci di rispondere alle sfide della contemporaneità, ha intuito che sta succedendo qualcosa che può minarne il potere di rendita: gli italiani sono favorevoli al premierato, il centrodestra potrebbe vincere (a patto che spieghi bene le riforme) il referendum confermativo e dunque, scrive Giannini, «la fase è propizia» e «Meloni mostra una spiccata attitudine all’ascolto della pancia del paese». Santo cielo, che disgrazia, il popolo che vota.

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