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Luca Beatrice: la Biennale degli artisti esclusi, solo queer e terzomondisti

di Luca Beatrice giovedì 1 febbraio 2024

3' di lettura

Ecco la Biennale della stranezza, il trionfo dell’outsider, dell’escluso, di tutto ciò che non si era mai visto. Titolo Stranieri ovunque, ovvero quel sentimento di sentirsi fuori posto, di non essere mai accettati. Parola d’ordine: “queer”, va assolutamente di moda, condizione ineludibile dei nostri tempi, ma quanto ha stancato. La 60ma edizione della Mostra Internazionale d’arte di Venezia, aperta al pubblico dal 20 aprile al 24 novembre prossimi, è stata presentata ieri a Cà Giustinian nel rispetto della concordia istituzionale. Il presidente uscente Roberto Cicutto ha salutato in sala il suo successore Pietrangelo Buttafuoco, breve discorso per evidenziare i buoni risultati del suo mandato, peraltro mutilato dal Covid, quindila parola al direttore Adriano Pedrosa, brasiliano, primo sudamericano a capo di Venezia. La sua Biennale verrà due anni dopo quella di Cecilia Alemani, incentrata sul desiderio di rimettere le cose in pari tra uomo e donna, anzi di dare più spazio al femminile per troppo tempo escluso. Questa volta il senso di colpa si estende ben oltre il genere; l’intenzione è di dare voce a tutto ciò che il mondo dell’arte ha escluso fin qua, perché fuori dal sistema o proprio per ignoranza.

Pedrosa viene da una parte del pianeta culturalmente vivace ma poco conosciuta e la sua ricerca si è mossa dal desiderio di rintracciare il diverso, medesima etimologia per queer, strano, estraneo, straniero, outsider, indigeno, folk, popolare. Dimentichiamoci le biennali del passato, ormai quelle mega rassegne di arte internazionale dove conteggiare le presenze delle singole nazioni e l’esibizione spesso muscolare delle star internazionali appartengono al passato. Più ancora della precedente questa edizione si inserisce nell’ambito delle “mostre concept”: il tema è forte e attorno si snoda l’intera riflessione. In più, edizione monstre, 332 artisti tra Giardini e Arsenale se non è un record poco ci manca. Dopo anni di rassegne tutte uguali solo ciò che fa sistema è incluso, il resto fuori, “Stranieri ovunque” inscena il tentativo di guardare oltre, portare a conoscenza il sommerso, mettere il sud al posto del nord, provare un’indagine curiosa e anticonformista. Per una volta, insomma, Venezia potrebbe non somigliare alle fiere di Basilea o Miami, dove a farla da padrone assoluto è il mercato e di conseguenza i soldi: Adriano Pedrosa punta sulla ricerca di una storia dell’arte altra, in particolare riflettendo sul ‘900, secolo tutt’altro che finito a giudicare dai conflitti lasciati in eredità al nuovo millennio. Non sarà una mostra facile, così priva di punti di riferimento, più antropologica che estetica. È anche una questione di lingua: al posto dell’inglese semplificato dell’arte una babele di 52 idiomi differenti.

L’idea di pescare nelle pieghe ci piace molto, anzi è una linea che culturalmente avochiamo a noi rispetto al sistema del consenso sostenuto da altri. Però il sospetto dell’operazione è che l’opera d’arte sia secondaria e di molto rispetto alla sfera esperienziale e biografica della persona e che la curiosità intellettuale sia subordinata ai proclami e agli slogan, cominciando proprio da Stranieri ovunque, titolo manifesto mutuato dall’opera del duo italo-francese Claire Fontaine. La mostra è divisa in capitoli, e quello dedicato al Queer desterà particolare attenzione, così come la sezione della diaspora italiana nel mondo, artisti che si sono allontanati dalla patria e hanno viaggiato integrandosi (più o meno) in altre comunità. Né può mancare la parte sull’attivismo nel cosiddetto “disobedience archive”, perché l’artista secondo Pedrosa oltre che outsider deve essere comunque contro, anche se non sempre è dato capire a cosa. Con pazienza il curatore snocciola i nomi di paesi lontani, parla di Palestina e non cita mai Israele, non si dimentica i Maori e gli antropofagi brasiliani degli anni ’20, però non si è fatto un giro nella provincia italiana dove avrebbe trovato decine, forse centinaia, di artisti esclusi dal grande giro meritevoli di attenzione. Ma noi rappresentiamo l’occidente, quella Vecchia Europa dove la civiltà artistica è nata e dunque meglio cercare tra i personaggi non binari, i pittori marocchini della scuola di Casablanca, i tessitori e i migratori. Raramente gli artisti vengono chiamati per nome, tanto non li conosce nessuno e comunque ciò che conta è la poetica del curatore, il resto è intercambiabile. L’impressione è che Pedrosa sia uscito da casa con la ricetta già pronta: devo fare una mostra ideologica, di estrema sinistra, terzomondista. Resta da capire se nel futuro ci sarà un cambio di passo o il catalogo, madamine, sarà ancora questo. 

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