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Pietrangelo Buttafuoco: "La Biennale non boicotta nessuno. Il ruolo dell'artista in tempi di guerra"

di Pietrangelo Buttafuoco giovedì 18 aprile 2024

8' di lettura

Pietrangelo Buttafuoco, neopresidente della Biennale di Venezia, ha aperto ieri mattina la conferenza stampa di inaugurazione della sessantesima Esposizione Internazionale d’Arte «Stranieri ovunque», curata da Adriano Pedrosa. Quest’anno sono oltre 4.200 i giornalisti accreditati alla Biennale Arte 2024, di cui 2.850 stranieri, pari al 67 per cento. Il tema della guerra che è tornata a insanguinare l’Europa e il Medio Oriente è «l’ospite silente che incombe nell’animo di tutti noi», ha detto Buttafuoco che ha poi continuato: «In tempo di guerra è necessario che i saggi, gli artisti, l’aristocrazia del pensiero facciano fronte alla catastrofe incontrandosi, parlandosi, misurandosi nella dialettica. Io mi assumo la responsabilità e dico che la Biennale è uno strumento di pace, è l’agone dove misurare la vicinanza tra popoli, culture, religioni». Un lungo applauso con standing ovation è partito al termine dell’ intervento di Buttafuoco che per gentile concessione della Biennale pubblichiamo integralmente in queste pagine.

Come siamo arrivati a questo punto? Non possiamo ignorare l’ospite silente che incombe nel cuore di tutti noi e la domanda è: come siamo arrivati a questo punto? Vi porto in un fotogramma ben preciso: Helmut Kohl e François Mitterrand sono mano nella mano nella foresta nera e vanno a rendere omaggio all’ultimo soldato insignito della croce di ferro, che è anche autore di un libro che è parola, viatico, futuro, e la parola è pace. E “La pace”, il suo libro, reca come sottotitolo una parola ai giovani d’Europa e del mondo, e la parola è pace, l’autore è Ernst Jünger, la croce di ferro è lui ed è a lui che Kohl e Mitterrand consegnano il suggello di pacificazione di una guerra che non ha mai avuto fine tra i loro popoli - la Francia e la Germania - e sono mano nella mano entrambi per rendere onore all’ultimo soldato la cui parola di destino è pace.

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IL FUTURO

Il prossimo 2025 tutti noi saremo chiamati a segnare una distanza dal 1795. È l’anno di pubblicazione della Pace perpetua di Immanuel Kant, e chissà il prossimo anno dove saremo arrivati, chissà quale “clausola salvatoria” - questo è quello che detta Immanuel Kant - avrà modo di riparare i danni dell’ospite che oggi è in tutti noi. Noi non ci possiamo rassegnare di avere smarrito il dovere di pace quando, arrivando a questo punto, già sappiamo di non poter fare tesoro della fatica operosa di un Giorgio La Pira, quando nella sua Firenze convoca da tutto il mondo i nemici irriducibili per costringerli al dialogo. E quindi come siamo arrivati a questo punto se una persona come Pio La Torre, un martire, giustamente ricordato nel suo luogo, ovvero nel Parlamento della Repubblica Italiana, oggi di certo non avrebbe voce, sarebbe considerato, in virtù della sua battaglia di pace, un nemico, e quindi additato come un nemico interno al servizio dello straniero?

VERTIGINE DELL’IGNOTO

Noi non possiamo fare finta di niente, e oggi che la 60esima edizione della Biennale d’Arte trova nel titolo Stranieri Ovunque questa vertigine dell’ignoto e ci conduce ben oltre la contemporaneità, ci impone anche di dismettere definitivamente la dimensione internazionale, perché la contemporaneità cede nel qui e ora dell’accadimento che non è evento e quel che ci riguarda è il futuro. L’internazionale, questa parola, riflettiamoci, è come una sorta di centrino dimenticato nel tiretto di un mobile in disuso e tarlato, perché non c’è altro orizzonte che l’universale ed è l’esatta misura che Adriano Pedrosa ha chiamato a Venezia - città unica al mondo dove ogni straniero da sempre trova domicilio: le geografie dimenticate, il ritorno alla res extensa, il riverbero plurale di una bellezza altrimenti dimenticata, esclusa, cancellata. Grazie Adriano Pedrosa. Perché nel suo lavoro ha ritrovato la bussola che ci consente di interpretare il paradigma a cui siamo chiamati, che non è quella di un’epoca di cambiamento ma un cambiamento d’epoca. Pedrosa viene dal Sud America e conosce bene la collocazione dei punti cardinali e sa che queste forme, che sono simboli, si sono antropizzati. E lo sappiamo: il nord se ne sta in testa con tanto di cappello e il sud è possibilmente a piedi scalzi. È straniero dunque l’essere straniero tra gli stranieri, a piedi scalzi, è il viandante in cammino tra i percorsi più impervi, è il mendicante i cui stracci spesso servono a nascondere la presenza di un Dio ed è quel nume sconosciuto a se stesso da cui gemma da sempre il rinnovarsi delle stirpi.

Noi lo consociamo bene, è Enea che si lascia alle spalle il fuoco di Ilio per fondare, lui che è straniero, quella civiltà dell’universale dove nessuno più è un barbaro ma un cittadino. Ed è questo il privilegio, il vantaggio, il terreno da cui noi possiamo arare un senso e un significato che va ben oltre la contemporaneità: è il futuro, quel futuro che sa essere radice nella profondità ed è quella che si riconosce nell’uomo che incontra la gente, ed è nella gente che riconosce la propria umanità, e la metafora è confine nel senso stesso del masticare, perfino mangiando. Ed è molto bello che in questa mostra la parola Abaporu, che in lingua tupi significa uomo che mangia la gente e del mangiare nell’area dell’intero Mediterraneo, in quello che poi è la radice stessa della civiltà, c’è un codice familiare che ci riconduce a due interpretazioni del divino, due conturbanti virgulti bellissimi, da cui traspare l’innocenza che scatena quell’appetito del volerseli mangiare. Il primo è il figlio di un Dio, è partorito dal polpaccio del suo genitore Zeus, ed è Dioniso; l’altro, figlio di Maria la prescelta, è quel Gesù la cui innocenza e candore rimanda a un’eucarestia, a una liturgia che è promessa dell’eterno per tramite di se stesso, quindi cibo per tutti. Uomo che mangia la gente. Magnifico come i fili apparentemente lontani, magnifico come le geografie apparentemente dimenticate, magnifico come la fatica dell’arte ove tutto possa essere ricondotto a una dimensione in cui strano, straniero, straniante è allo stesso tempo nutrimento e linfa.

Ed è veramente stupefacente che la città che da 129 anni ha ideato la Biennale internazionale dell’arte, rinnova le sue promesse proprio in una coincidenza, quella dei 700 anni di Marco Polo, che è curiosità, volontà di andare a incontrare e visitare le culture percepite come lontane ma che sono sempre a noi vicine. Saluto e ringrazio Adriano Pedrosa per aver aperto questo capitolo ben oltre la mostra, che è innanzitutto un capitolo di profonda riflessione che ci riguarda tutti anche in termini politici.Voglio ringraziare tutti gli 87 Paesi partecipanti e i 4 Paesi presenti per la prima volta alla Biennale Arte: Repubblica del Benin, Etiopia, Repubblica Democratica di Timor Leste e Repubblica Unita della Tanzania. Ringrazio tutte le istituzioni che organizzano i 30 Eventi Collaterali in città. Ringrazio il Ministero della Cultura, le Istituzioni del territorio che in vario modo sostengono La Biennale, la Città di Venezia, la Regione del Veneto, la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna, la Marina Militare. Un ringraziamento va al Partner della manifestazione Swatch, al main sponsor illycaffé e agli sponsor American Express, Bloomberg Philantropies, Vela-Venezia Unica. Ringrazio la Rai, Media Partner della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte, che seguirà la manifestazione con un’offerta dedicata in tv, alla radio e sul web. Si ringraziano i Donor, gli Enti e Istituzioni internazionali per il loro sostegno nella realizzazione della Biennale Arte 2024. In particolare i nostri ringraziamenti vanno a Adriano Pedrosa e a tutto il suo team.

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LA DOMANDA

E il mio grazie al mio complice, amico, nonché maestro, Roberto Cicutto, della cui semina nel gemmare di tutto io faccio raccolta senza nulla disperdere. Grazie a tutta la squadra della Fondazione la Biennale di Venezia che è innanzitutto per me cattedra di spirito critico, di immaginazione ed è potenza di vivo segno. E però la domanda: come siamo arrivati a questo punto? Pongo la questione ad Adriano Pedrosa, l’essenza dell’opera d’arte è tutta nel mettersi all’opera della verità ed è la verità stessa a mettersi all’opera nell’opera. Ecco la pipa. C’è la pipa, ma questa non è una pipa. Non possiamo fare finta che non sia successo niente, e se questa non è una pipa doppiamente, totalmente, nell’assoluto della verità ciò che non è, è pipa. Il Padiglione di Israele che decide di non aprire doppiamente, totalmente, nell’assoluto della verità, capovolge l’atto estremo scelto dell’artista nel mettersi in opera della verità, il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, e questo per dirlo con Magritte, non è un padiglione, è un fatto d’arte.

È il genio dell’arte che sa trovare risposta. Per restare nell’apologo, questa non è la Biennale. In tempo di guerra è necessario ed è urgente che i saggi, gli artisti, l’aristocrazia del pensiero facciano fronte alla catastrofe incontrandosi, parlandosi, misurandosi nella dialettica, io me ne assumo la responsabilità. E vi dico che questa, che non è una pipa, è uno strumento di pace, è l’agone dove misurare la vicinanza tra i popoli, le culture, le religioni e le più irriducibili differenze. Come siamo arrivati a questo punto? Io adesso vi racconto del gelato. Senza dimenticare che in questa città, presso la meritoria Fondazione Cini nell’isola di San Giorgio, sovietici e americani si incontravano per scongiurare quella guerra che a farla oggi, immaginarla oggi, è soltanto catastrofe. Io vi racconto del gelato e questa non è una pipa. Ma questa che non è una pipa, la Biennale - me ne assumo la responsabilità- diventi il punto alto di intersezione dove concorrano i raggi di una stessa luce. Vi racconto del gelato ma non dimentichiamo la vergogna delle università dove è stato censurato il corso di Paolo Nori dedicato a Dostoevskij, perché qui si apre, si riapre, qui non si boicotta nessuno.

E adesso vi racconto del gelato. In Libano, a Beirut, predicava un tempo l’Imam Musa al-Sadr, ascoltato, adorato, una sorta di Gandhi. Dove arrivava raccoglieva la vibrante presenza di quello spirito e sentimento che è pace: era quello il momento di una guerra terribile che è ancora oggi presente, che non possiamo ignorare e sono giorni in cui, accanto ai combattimenti e ai massacri, si scatena una epidemia. A Beirut era molto amato un gelataio, un gelataio cristiano, amato da tutti, faceva gelati squisiti, ma sapete com’è l’odio, la menzogna, sapete come funziona quello che abbiamo ancora addosso oggi, la propaganda.

Comincia a spargersi la voce che sia lui ad aver diffuso l’epidemia, che sia lui l’untore e quindi serpeggia quel sentimento pericoloso per le comunità e per gli stranieri, per lui che è straniero: a poco a poco c’è una tensione così alta che in un venerdì di preghiera l’Imam Musa al -Sadr, ovviamente fatto sparire, sequestrato e cancellato da questa terra, nella sua predica del venerdì infiamma tutti i cuori di amore, di pace, di benedizione, lancia il suo monito e quando alla fine sono tutti presidi vibrante commozione per questa parola “sudi lui lapa ce”, al termine del suo sermone, invitando tutti dice “e adesso andiamo a prendere tutti un gelato”, e li conduce tutti dal gelataio consegnando a lui, con il suo gesto, l’atto riparatore, la conferma e la consapevolezza che quello straniero trova domicilio nella comunità di tutti nel segno del gelato. E adesso andiamo a prendere tutti il gelato. 

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