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Francesco Specchia: il romanzo che Márquez non voleva pubblicare

di Francesco Specchia mercoledì 6 marzo 2024

4' di lettura

Oltre alla necessità di tramandare ai posteri il fiammeggiante sforzo poetico, l’alta letteratura e l’inarrivabile «comprensione del genere umano» del loro genitore, probabilmente il gesto dei figli di Gabriel García Márquez di pubblicare il testo inedito del padre sta nel più nobile dei motivi. I soldi. I soldi riaccendono magicamente gli affetti. I soldi ti preservano da qualsivoglia solitudine, durasse anche cent’anni. Rodrigo e Gonzalo García Barcha, eredi legittimi di Gabo hanno dunque deciso di far pubblicare Nos vemos en agosto (Ci vediamo ad agosto) il libro postumo di Marquez. Attesissimo, il volume uscirà per la Penguin Random House nei Paesi di lingua spagnola, per Knopf negli Usa e in Italia per Mondadori, in contemporanea mondiale oggi, nello stesso giorno della nascita dello scrittore colombiano, Nobel per la Letteratura nel 1982. E sta bene. L’incipit - l’unica cosa che si conosce dell’opera- è latinamericaneggiante, roba tipo «Tornò nell’isola il venerdì 16 agosto nel traghetto delle due del pomeriggio»; e la trama è certamente marqueziana, poiché narra la vita di Ana Magdalena Bach, donna di quasi cinquant'anni di età con alle spalle trent’anni di soddisfacente vita matrimoniale e del suo viaggio che si compie ogni anno, nella giornata del 16 agosto, nell’isola dei Caraibi dove è sepolta la madre.

L’ULTIMO ADDIO
E, da lì, l’occhio dello scrittore si concentra sui dettagli: «Il traghetto, il taxi, un mazzo di gladioli e l’hotel: questo rituale esercita su di lei un irresistibile invito a trasformarsi - una volta all’anno - in un’altra donna, a esplorare la propria sensualità e a sondare la paura che silenziosa cova nel suo cuore», scrive Gabo. E sta molto bene. I figli di Gabo, spiegano commossi a Robinson, l’inserto culturale di Repubblica, che il papà non voleva disvelare il suo ultimo afflato letterario al mondo perché lo «riteneva brutto»; e che, però, ne urgeva la pubblicazione prima che l’Alzheimer privasse Gabo della lucidità; e che era necessario per i fan dello scrittore attingere alle ultime riserve e al mosaico di libertà e desideri dei suoi mondi incantati. E sta benissimo. C’è però un piccolo dettaglio. Gabo non voleva affatto pubblicare Ci vediamo ad agosto. Anzi, aveva dato precise disposizioni in merito. I figli di Gabo-carne della sua carne, sangue del suo sangue, conto corrente del suo conto corrente- hanno stabilito la necessità della pubblicazione postuma contro la volontà dell’autore. La qual cosa è essa stessa un topos letterario. Tra gli artisti morti precocemente o in attesa di defungere, tre sono le scuole di pensiero rispetto ai propri inediti che attraversano l’Acheronte delle buone- o cattive - intenzioni degli eredi. Tre.

C’è la scuola di Robert Plant dei Led Zeppelin, il quale ha già allestito un quintale di bozze e registrazioni da pubblicare soltanto dopo il proprio decesso (il più tardi possibile). C’è la scuola di Franz Kafka che aveva disposto di bruciare gli scritti mai usciti dopo la sua morte, soprattutto Il processo, ma l’erede universale Max Brod fece esattamente il contrario (anzi, Brod voleva consegnare gli inediti gratis alla Biblioteca Nazionale di Israele, e fu la sua amante Eva Hoffe a lucraci sopra). E c’è la scuola di Giovannino Guareschi affidatosi, in tema d’inediti, alla volontà dei figlioli, pregandoli di usare ragionevolezza nell’evitare d’ingolfare il mercato anche con i suoi pizzini di famiglia, ricette di cucina o liste della spesa; e qui, talora, i Guareschi’s boys si lasciarono un po’ prendere la mano. Il gennaio scorso è stata la volta di Michela Murgia omaggiata da Rizzoli con la pubblicazione del suo libro postumo intitolato Dare la Vita, che naturalmente la famigliola allargata della scrittrice stessa. Se tutto questo è di certo lecito, può considerarsi anche etico? Dipende.  In fondo, «non si sceglie né il tempo né il mondo», come scriverà Louis Aragon, pochi giorni dopo la morte di Colette, scrittrice geniale nonché oggetto di pubblicazioni inedite e postume, per l’appunto.

 In alcuni casi, violare la volontà del de cuis fa bene alla letteratura. Prendete Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Bulgakov è morto nel 1940 ed era uno scrittore noto per via dei Racconti di un giovane medico e La guardia bianca. Tuttavia. la sua opera più celebre è stata pubblicata postuma: Il Maestro e Margherita, scritto negli ultimi anni della sua vita, fu pubblicato per la prima volta soltanto nel 1967, trent’anni dopo la morte dell’autore. Aggiungeteci i titoli migliori di Sylvia Plath poetessa e scrittrice statunitense che si è tolta la vita nel 1963. Aveva già pubblicato il romanzo La campana di vetro sotto lo pseudonimo di “Victoria Lucas”. Però le sue raccolte di poesie uscirono postume: Ariel nel 1965 e Collected Poems nell’81. Quest’ultimo un Pulizter postumo.

E risfoglierei l’opera omnia di Emily Dickinson pubblicata e scoperta soltanto dopo la scomparsa della poetessa: fu infatti la sorella, Vinnie, a scoprirne i manoscritti dopo la sua scomparsa. Chiudete con Gogol che, preso da eccesso di fanatismo religioso finì col bruciare il secondo libro delle Anime morte da cui si salvarono solo due capitoli. In altri casi, della salvezza dell’opera non pubblicata- magari perché effettivamente impubblicabile - non si sentiva francamente la necessità. Un esempio su tutti è quello degli scritti giovanili, under 18, del narratore horror americano Howard Phillips Lovecraft: li strappò lui stesso quasi tutti saltandone solo cinque, tra cui La piccola bottiglia di vetro scritta a sette anni. Lo convinse l’orribile madre. Mentre fu grazie alla lungimiranza della madre di John Kennedy Toole che Una banda di idioti trovò la via del successo dopo il suicidio dell’autore. Premio Pulitzer da defunto pure per lui. Poi, come scriveva il critico Vittorio Spinazzola c’è la casistica dei «libri postumi di scrittori viventi». Ma quella è un’altra storia. 

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