Il nuovo psicodramma interno al Pd porta il nome di Jobs Act, la riforma del lavoro che lo stesso Pd - col governo Renzi - votò entusiasta tra il 2014 e il 2016. Dieci anni dopo la sua messa in atto Elly Schlein ha annunciato che firmerà e appoggerà il referendum (promosso dalla Cgil) per abolire quella norma.
Una posizione- certo annunciata durante le primarie ma che a poco più di un mese dalle elezioni europee mette in forte imbarazzo l’ala riformista del partito, che il Jobs Act non solo l’aveva votato, ma pure scritto. E che ora si trova nella posizione di dover abbozzare un sorriso entusiasta difronte alla campagna per rottamarlo.
Pensiamo ad esempio ad Antonio Misiani, attuale responsabile economico del Partito democratico che nel 2015, ad un anno dall’entrata in vigore della riforma, produsse uno studio al termine del quale definì il jobs act «eccezionale. I dati sono lì da vedere - scriveva -: si tratta di un punto di svolta quasi rivoluzionario per il mercato del lavoro dopo anni di evidente declino». Chissà cosa penserà oggi di un partito, il suo, che quella “rivoluzione” la vuole smontare pezzo per pezzo. E in effetti gli studi dicono che dal 2014 al 2016 (quando cadde il governo Renzi) gli occupati in più grazie alla riforma del lavoro erano cresciuti di circa un milione di unità.
Misiani è in buona compagnia. E sarà curioso capire cosa faranno ad esempio Paolo Gentiloni, Roberta Pinotti, Beatrice Lorenzin, Marianna Madia, Dario Franceschini e Graziano Delrio, che all’epoca del voto di quella riforma erano membri del governo Renzi e che oggi si trovano a dover scegliere se appoggiare una consultazione per smontare quello che loro stessi avevano entusiasticamente votato, o mandare a stendere la segretaria.
Paolo Gentiloni, oggi Commissario Ue agli affari economici e monetari, nel 2014 ai mugugni dell’allora minoranza Pd rispondeva secco: «Chi non vota il Jobs si mette fuori. In passato siamo stati troppo schiacciati sulla Cgil». Non è un caso che proprio l’ex premier sia indicato come possibile successore della Schlein in caso di tonfo alle europee. Ancora: Graziano Delrio nel 2014 era sottosegretario alla presidenza del Consiglio e ai contrari al Jobs Act diceva: «Se la sinistra è spaventata dalla leadership (di Renzi, ndr), ha un problema di modernità. Vedremo tra un anno chi avrà avuto ragione».
Sarà contento, invece, Francesco Boccia che all’epoca era presidente della Commissione Bilancio e non nascondeva le critiche al testo, soprattutto per il depotenziamento dell’articolo 18: «È tutto sbagliato, la discussione è sbagliata fin dall’inizio. Ci dividiamo, mediamo e poi ci dividiamo ancora sull’articolo 18? Questo è un incubo, per favore svegliamoci». Oggi Boccia è capogruppo al Senato- voluto dalla Schlein- ed è facile immaginare che sarà tra i fautori del referendum.
Così come Cesare Damiano e Stefano Fassina.
Tornando all’oggi, la posizione della Schlein, tanto per cambiare, ha diviso il partito. Giorgio Gori, sindaco uscente di Bergamo e candidato alle europee sbatte la porta: «Mi sembra una cosa coerente con la storia politica di Elly Schlein. Siccome firmare sarebbe totalmente incoerente con la mia storia politica, io sicuramente non firmerò».
Anche perché, spiega Gori: «Penso che il Jobs Act non abbia in alcun modo aumentato la precarietà che, anzi, è diminuita negli ultimi dieci anni». Sulla stessa lunghezza d’onda anche il giuslavorista Pietro Ichino che nella sua newsletter scrive: «Il segretario della Cgil Maurizio Landini non dice su quali dati si fondi la sua affermazione secondo cui il secondo decreto attuativo del Jobs Act, quello che contiene la disciplina dei licenziamenti, sarebbe stato “un fattore di aumento di precariato”: i dati dell’Inps dicono che negli ultimi quindici anni la probabilità di essere licenziati in Italia è rimasta invariata» e che «la riforma dei licenziamenti ha portato a un dimezzamento del contenzioso giudiziale».
Poi c’è l’ala degli attendisti.
Dario Nardella, sindaco di Firenze in lizza per un seggio a Bruxelles, dice che «ci sto pensando se firmare o no. Prima concentriamoci sulle elezioni». Idem il governatore della Toscana Eugenio Giani: «Quando questo argomento sarà affrontato nelle sedi di partito , anch’io mi farò meglio un’idea e potrò esprimere la mia opinione». A ruota arriva anche il governatore dell’Emilia-Romagna e presidente del Pd, Stefano Bonaccini: «Il partito non si schiera su autonome iniziative di altri, su cui ciascuno è libero di firmare o meno...». L’ex ministro del lavoro Andrea Orlando sceglie un approccio più pragmatico e dice: «I parlamentari possono anche non firmare il referendum». Tantomeno lui che ha «presentato un disegno di legge per riformare il Josb Act».
Sul punto è tornata a parlare anche Elly Schlein, ribadendo che «noi guardiamo con interesse alle iniziative del sindacato. Non è una sorpresa». E ricorda come «nel 2015 io ero in piazza con la Cgil contro l’abolizione dell’articolo 18. Era un punto fondamentale della mia campagna alle primarie e di ricucitura rispetto a scelte fatte nel passato che anche i nostri elettori non ritengono corrette».